IL PARADOSSO DEL MENONE:

Conoscenza e reminiscenza 

 

MENONE: In che modo cercherai, o Socrate, ciò che non sai assolutamente cosa sia? Quale tra le cose che non sai

proporrai come oggetto della tua ricerca? E se poi, nel migliore dei casi, ti imbattessi in essa, in che modo capirai che

questa cosa è ciò che tu non sapevi?

 

SOCRATE: Capisco cosa vuoi dire, Menone. Vedi come svolgi un discorso eristico per il quale all'uomo non è

dato cercare né ciò che sa né ciò che non sa? Infatti ciò che sa non lo cercherebbe - perché lo sa e non ha nessun

bisogno di cercarlo - né cercherebbe ciò che non sa - e infatti non sa neppure cosa cercare.

 

MENONE: Non pensi che questo discorso sia condotto bene, o Socrate?

 

SOCRATE: No, non mi sembra.

 

MENONE: Puoi dire come?

 

SOCRATE: Sì: infatti ho sentito dire da uomini e donne sapienti di cose divine...

 

MENONE: Quale ragionamento facevano?

 

SOCRATE: Un ragionamento vero, a mio parere, e bello.

 

MENONE: Qual è questo ragionamento e chi sono coloro che parlano?

 

SOCRATE: A parlare sono i sacerdoti e le sacerdotesse, ai quali sta a cuore essere in grado di discutere di ciò di cui

hanno il ministero; ma parla anche Pindaro e molti altri poeti, tutti quelli che sono divini. Ed ecco cosa dicono: esamina

dunque se ti sembra che dicano il vero. Affermano infatti che l'anima dell'uomo è immortale, e che talora finisce - e

questo lo chiamano morire - talora invece nasce di nuovo, ma non perisce mai; per questo dunque bisogna vivere il più

possibile una vita pia; infatti a coloro dai quali «avrà ricevuto espiazione per l'antico dolore Persefone su in alto verso

il sole nel nono anno manda ancora una volta le anime e da esse crescono re illustri uomini impetuosi per forza e

potenti per sapienza; per il tempo che resta eroi senza macchia tra gli uomini sono chiamati». Dunque, dal

momento che l'anima è immortale e nasce più volte, ed ha contemplato tutte le cose, sia qua sia nell'Ade, non c'è niente

che essa non abbia imparato; sicché non desta meraviglia il fatto che essa sia capace di ricordare, sulla virtù e sul resto,

ciò che sapeva anche prima. Infatti poiché la natura tutta è congenere e l'anima ha appreso tutto quanto, nulla impedisce

che, ricordando una sola cosa - e questo gli uomini lo chiamano appunto apprendimento - uno trovi da se stesso anche

tutto il resto, se è coraggioso e non si stanca di cercare: cercare e apprendere infatti sono in generale reminiscenza. Non

bisogna dunque credere a questo ragionamento eristico: esso infatti ci renderebbe pigri ed è dolce da ascoltare per

gli uomini privi di nerbo, mentre l'altro rende operosi e atti alla ricerca; poiché io credo che dica il vero, voglio cercare

assieme a te cosa sia la virtù.

 

MENONE: Sì, Socrate, ma in che senso dici che non apprendiamo e che ciò che chiamiamo apprendimento è

reminiscenza? Puoi insegnarmi che la cosa sta così?

 

[...]

 

SOCRATE: se fossimo convinti di dover cercare ciò che non sappiamo,

potremmo essere migliori, più virili e meno pigri di quanto lo saremmo se pensassimo che ciò che non sappiamo non è

possibile trovarlo e neppure bisogna cercarlo, questa idea la sosterrei energicamente, se ne fossi capace, e con le parole

e coi fatti.

 

MENONE: Anche su questo mi sembra che parli bene, o Socrate.

 

SOCRATE: Vuoi dunque, giacché siamo d'accordo che bisogna cercare ciò che non si sa, che tentiamo insieme di

ricercare cosa mai sia la virtù?

 

MENONE: Certamente. Nondimeno, o Socrate, io per parte mia gradirei moltissimo indagare e ascoltare ciò che ti

chiedevo appunto prima, se dobbiamo dedicarci a questo come a una cosa che si possa insegnare oppure se la virtù

sia presente negli uomini per natura o in qualche altro modo.

 

SOCRATE: Ma se io, Menone, avessi potere non solo su di me ma anche su di te, non indagheremmo se la virtù sia

insegnabile o non sia insegnabile, prima di aver cercato che cosa essa sia.