Roberta De Monticelli

 

Esercizi di pensiero per apprendisti filosofi, Introduzione, pp. 9-11 e 15

 

Bollati Boringhieri, Torino 2006

 

C'è una breve parola, che ci sale alle labbra nei momenti di forte temperatura emotiva ma anche in quelli di calma ricerca: «Perché?» Una parola che succede a volta di sussurrare con sgomento, senza poterne pronunciare altre. Ma non è certamente solo lo sgomento o l'errore che ce la fa salire alle labbra: è anche, in altre occasioni, la meraviglia o la curiosità, e soprattutto il desiderio di vederci chiaro. È sorprendente: chiede «perché» chi chiede ragione del male che (gli) è stato fatto, e questa è la differenza tra il nostro soffrire e quello degli altri animali, ma chiede «perché?» anche chi semplicemente chiede evidenza o ragione di quello che viene detto. C'è una sola parola che va bene in entrambi i casi per designare quello che si chiede: «giustificazione». Questo è un fenomeno che, forse, ci può aiutare a capire meglio sia l'uno sia l'altro tipo di domanda: sia la domanda della vittima innocente, sia quella del cercatore di conoscenza, del bambino, dello scienziato, del filosofo.

Chiediamo a chi fa, in particolare a chi fa del male, che risponda delle sue azioni. Chiediamo a chi parla, qualunque cosa dica – se parla sul serio e non per gioco – che risponda delle sue asserzioni.

Chiediamo cosa diverse, ma profondamente connesse, anzi intrecciate. Nel primo caso chiediamo a chi ha agito di giustificarsi, di mostrarci la giustezza di ciò che ha fatto se lo può, e più questo sembra impossibile, più intensa, anche dove è solo mormorata, è la domanda. Dunque presupponiamo un orizzonte di giustizia, o almeno di giustezza, per ogni azione: come se chi agisce avesse implicitamente accettato un impegno ad agire in vista del bene. Le stesse agghiaccianti pseudo-giustificazioni, di cui si nutre sempre la violenza, nello stesso tempo ribadiscono e tradiscono questo impegno, e perciò fanno orrore. Nel secondo caso chiediamo a chi parla di giustificare le sue affermazioni, vale a dire di indicare a chi ascolta dove deve guardare per vedere che quello che è stato detto è vero. Dunque presupponiamo una pretesa di verità per ogni affermazione: e un impegno a onorarla, cercando e offrendo evidenza per quello che si afferma. Chi usa senza spiegazione parole che hanno mille significati o nessuno, chi afferma «la verità non esiste» (e non si accorge di fare un'asserzione che pretende di essere vera), chi fa credere che il linguaggio filosofico sia fatto, come troppo spesso sembra, di un paio di sortilegi verbali; ma, anche di più, chi ascolta e non chiede perché manca a questo impegno.

E già questa, di chiedere ragione, è la prima cosa che l'apprendista filosofo dovrebbe apprendere a fare, lui che è soprattutto, agli inizi, costretto ad ascoltare. Là dove nessuno chiede ragione, come può la filosofia anche solo cominciare?

L'impegno a onorare una pretesa di verità avanzata con un'affermazione è in definitiva un impegno etico, dato che la conoscenza sia un valore, o una condizione migliore dell'ignoranza e della confusione. E senza responsabilità nell'uso delle parole, non può esserci conoscenza – vale a dire, secondo la celebre definizione platonica, «opinione veragiustificata». La domanda «perché?» ci fa scoprire l'intreccio di etica e logica, su cui i filosofi si interrogano, da Platone a Husserl. Se l'etica è la logica dell'agire giusto, la logica è l'etica del pensare.

Pascal si chiedeva: perché uno storpio ci ispira compassione, mentre uno che è storpio nel ragionare ci irrita? Chi usa le parole in modo da non poter rispondere ai nostri «perché?» – e forse neppure li ode – ci irrita perché trasgredisce un dovere costitutivo della ragione. Parlare con giustezza è un modo dell'agire responsabile. Fare asserzioni è assumersi l'impegno di sostenere la loro verità.

 

[…] Razionale è un pensiero disposto a render ragione di sé – vale a dire delle proposizioni che afferma, cioè del nostro dire, e dei propositi o delle decisioni cui perviene, cioè delle sue conclusioni per il nostro fare. Non si può rendere ragione o giustificazione dove non c'è norma in base cui valutare se si ha o no ragione. Riconoscere che i limiti dell'arbitrio possibile del pensiero sono posti dalla realtà delle cose stesse è riconoscere che le cose stesse, nella loro realtà essenziale e nelle loro qualità di valore, sono fonti di normatività, rispettivamente, per il nostro dire veridico e per il nostro fare adeguato. Per difficile che sia, ogni volta, conoscere come veramente le cose stanno, sia quanto al loro essere sia quanto al loro valere e alle esigenze che di conseguenza ci pongono, per grande che sia la nostra fallibilità.

[…] C'è in effetti una tentazione che gran parte del pensiero europeo del ventesimo secolo non ha respinto, ed è quella di proclamare che lavolontà umana non è solo potere di decidersi per una qualunque condotta, che sia eticamente indifferente, o eticamente giusta, o eticamente ingiusta; ma addirittura è potere di statuire che cosa sia benee che cosa male. Come il Dio di Cartesio, de potentia absoluta!