Gianni Vattimo

 

Le ragioni etico-politiche dell'ermeneutica, in AA. VV.Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolopp. 81-83

 

Marsilio, Padova 2005

 

Difficile distinguere da ciò che si presenta come il reale, diverso dal nostro rispecchiamento da esso, da ciò che pretende semplicemente di valere come la verità assoluta. Nietzsche non aveva torto a dire che chi pretende di parlare in nome della verità stessa è solo qualcuno che vuole imporci la sua interpretazione.

[…] La «realtà» di cui parlano coloro che credono di potervi accedere al di là dell'interpretazione è solo l'insieme sempre un po' torbido e confuso di tutto ciò che «non c'entra», e che diventa un fatto solo se confrontato con la teoria che tenderebbe ad escluderlo. Il terremoto di Lisbona scuote violentemente l'ottimismo di Candide; ma per molta altra gente è «solo» un evento naturale particolarmente violento, che disturba la routine quotidiana come tanti altri. La routine quotidiana lo «lascia» accadere e non si turba più di tanto, cerca di resistervi con i mezzi soliti, come prende l'ombrello per uscire quando piove. Insomma, l'idea che un approccio ermeneutico al mondo non riesca a fare i conti con gli imprevisti e le novità dei fatti è pura caricatura; che deve a sua volta rispondere dell'assurda pretesa di confrontare le interpretazioni con il fatto «in sé».

 

Addio alla mente come «specchio della natura»

 

Sgombrare il campo da quella caricatura e da questa assurdità è la prima mossa per capire le buone ragioni del post-modernismo. Che, almeno nella lettura che ne do, muove da Heidegger e da Nietzsche e approda a una sorta di hegelismo moderato. Non c'è il mondo là fuori e noi che, da punti di vista diversi, lo interpretiamo, salvo poi metterci quando finalmente vediamo i fatti in sé. Questo è il punto di vista metafisico che non è più, «di fatto», e cioè socio-culturalmente, psicologicamente, politicamente, praticabile. L'idea di una mente come specchio della natura – secondo il titolo del bel libro di Rorty – si è consumata; non a favore di un rispecchiamento più reale: che non ci siano fatti, solo interpretazioni (Nietzsche) non è una tesi descrittivo-metafisica che pretenda di essere più vera; è solo, a propria volta, una interpretazione che si raccomanda come più ragionevole, in fondo più per motivi etici che con ragioni descrittive. I fatti sono un insieme inestricabile di interpretazioni e di datità che non si danno mai se non entro orizzonti interpretativi. Quando cito un «fatto» come tale in genere cito la testimonianza di uno o più interpreti, siano essi testimoni oculari o protagonisti di azioni. Domandiamoci piuttosto perché una simile idea appaia così scandalosa. Credo che si dovrebbe riconoscere che essa è tale per chi vuole che si «fissi» un «punto fermo»; per chi vuole legittimare una norma che si impone. Ma, a parte la legge di Hume(illegittimo ricavare norme da fatti), questa esigenza è sua volta etico-politica più che teorico-razionale. È giusto dunque analizzarla nei termini della critica nietzscheana – c'è qualcuno che in nome della verità mi vuole far fare ciò che non voglio.