Nuovo realismo, vecchio dibattito. Tutto già conosciuto da millenni.

 

di Emanuele Severino, Corriere della Sera, 31 

agosto 2011

Questa estate, dopo un incontro alla Milanesiana, mi son trovato a cenare con Umberto Eco e Maurizio Ferraris. A un certo punto il discorso è caduto sul modo di intendere i «fatti». Molto difesi da Eco e Ferraris. E anche il «senso comune» era molto difeso da Eco. Ho avuto l'impressione che per lui e, credo, anche per Ferraris, la «verità» fosse il cosiddetto «senso comune». Il loro primo bersaglio era l'affermazione di Nietzsche, che «non esistono fatti ma solo interpretazioni». Nietzsche non è un «realista». Ma implicitamente il bersaglio si allargava a Heidegger e a Gadamer e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi pensatori, a partire appunto da Nietzsche.

Poi, su «la Repubblica» Ferraris ha scritto che è ora di far rivivere su scala mondiale i «fatti», la «verità», il «realismo» e ha discusso la cosa con Vattimo che però non è d'accordo. Sul «nuovo realismo» si annunciano già convegni in varie parti del mondo a cui auguro di evitare una certa leggerezza purtroppo occhieggiante. Anche Benedetto XVI, a Madrid, ha invitato i giovani a «cercare la verità» (si capisce, per poterla trovare) e lo ha fatto citando il Parmenide di Platone. Se mi è lecito annotarlo, c'è anche chi, da più di mezzo secolo, va dicendo che il senso autentico della verità non è investito dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la «verità», quale è intesa lungo la storia dell'Occidente. 

Ma Ferraris, che peraltro stimo, vuol far rivivere «fatti», «verità» e «realismo» dando come cosa per sé evidente (almeno così mi è sembrato) che la realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la quale sarebbe però capace di conoscerla con verità, scorgendo appunto i «fatti» ed essendo quindi una certezza che ha come contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare questo modo di pensare in ciò che Hegel chiamava appunto «identità di certezza e verità». Non dubito che Ferraris e Eco l'abbiano presente. Con fatica, dico, perché — lo comunicavo a Eco anche quella sera — il senso comune non è la conferma filosofica del senso comune.

Anche per le scienze della natura la realtà esiste indipendentemente dall'uomo. Da qualche millennio questo è anche il comune modo di pensare dei popoli, il loro «senso comune». Ma ben prima della scienza è la filosofia, sin dai suoi inizi, a riflettere sul rapporto tra l'essere umano e la realtà — e sul significato di queste due dimensioni. Prevale, con la grande filosofia classica (Platone, Aristotele) la conferma del senso comune. E più tardi tale conferma sarà chiamata «realismo». La prospettiva espressa dal principio di Protagora che «l'uomo è la misura di tutte le cose» (e che quindi la realtà dipende dal modo in cui l'individuo pensa e vuole) resta a lungo emarginata.

Ma, proprio perché conferma il senso comune, il «realismo» filosofico non è il senso comune. La filosofia, infatti, viene alla luce evocando un senso prima sconosciuto della parola «verità» — il senso che domina l'intera tradizione dell'Occidente dai Greci a Hegel, ad Einstein; cioè la verità come «scienza» (epistéme) incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé evidenti —; e il realismo filosofico ritiene che il senso comune abbia verità. Ma è la filosofia a conoscere la verità del senso comune, non il senso comune.

Per avere un esempio della potenza e complessità concettuale del realismo filosofico si tenga sott'occhio questo passo dell'Etica nicomachea di Aristotele: «Ciò di cui abbiamo scienza non può essere diversamente da come è; le cose che possono essere diversamente, invece, quando siano fuori della nostra osservazione, ci rimane nascosto se esistano o no». (La parola «osservazione» traduce la parola theoréin, che significa la manifestazione del mondo, che accade con l'esistenza dell'uomo). Si può dire che in questo passo sia addirittura anticipato quell'importante atteggiamento del pensiero contemporaneo che è la «fenomenologia» fondata da Edmund Husserl, per la quale è verità tutto, ma anche solo ciò che è osservabile (manifesto, immediatamente presente, sperimentabile); e quindi non è possibile che, con verità, venga affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato. 

Proprio per questo la «fenomenologia» non è una conferma del nostro senso comune. Aristotele non riconoscerebbe ciò che pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una critica radicale del senso comune in quanto sussistente al di fuori della conferma che l'epistéme gli dà: tutto ciò che esso dice non è scienza (epistéme). Inoltre, per Aristotele, la realtà di cui c'è scienza e che quindi esiste indipendentemente dall'uomo è più ampia della realtà di cui, secondo la «fenomenologia», c'è scienza (e anche Husserl intende la filosofia come «scienza rigorosa»). La scienza è infatti per Aristotele (come per l'intera tradizione occidentale) anche scienza di Dio, «metafisica».

Il «realismo» filosofico greco si è sviluppato nella filosofia patristica e scolastica (Agostino, Tommaso, ecc.), e quindi nella dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa filosofia moderna prekantiana, che però procede a una forma più elaborata di conferma del senso comune. E il «realismo» è stato messo in questione da Kant e dall'idealismo, per poi riaffacciarsi in varie correnti della filosofia degli ultimi due secoli, Marx e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma quanti conoscono l'idealismo da cui ci si deve liberare? Per l'idealismo (e il neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il realismo) che la natura esiste indipendentemente dalle singole coscienze degli individui umani. È dalla coscienza «trascendentale» (liquidata con troppa disinvoltura) che la natura non è indipendente.

La scienza, si diceva sopra, è realista. E la «filosofia analitica», che in questi giorni si farà sentire all'Università San Raffaele di Milano, sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bisogna rivolgersi alla scienza moderna (che non è più epistéme). Sennonché, se il «realismo» della scienza moderna non vuol essere semplice, ingenuo «senso comune», allora è una tesi filosofica, è cioè quel realismo filosofico la cui potenza e complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni non realistiche sfuggono completamente al moderno sapere scientifico — e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al «nuovo realismo», stando al modo in cui esso è stato presentato.

Si aggiunga che la scienza intende fondarsi sull'«osservazione». Ma la gran questione è che la realtà, che per la scienza esisterebbe egualmente anche se l'uomo non esistesse (l'uomo, dice la scienza, compare soltanto a un certo punto dello sviluppo dell'universo), è per definizione ciò che non è osservato dall'uomo, ciò di cui l'uomo non fa esperienza. Ciò significa: non può esserci esperienza umana di ciò che esiste anche quando l'umano non esiste; e quindi l'affermazione che la realtà è indipendente dall'uomo finisce anch'essa con l'essere una semplice fede o quella forma di fede che è il grado anche più alto di «probabilità».

Comune al «nuovo realismo» e al «pensiero debole» di Vattimo e Rovatti è comunque l'istanza politico-morale messa in primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire il totalitarismo. Ora, la filosofia — come il mito e poi la scienza moderna — è nata per difendere l'uomo dal dolore e dalla morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo senso la filosofia (come il mito e la scienza), nascendo dalla paura, è mossa da un'istanza politico-morale. Ma la filosofia si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del mito, ma deve avere «verità» e la «verità» non può fondarsi sulla dimensione politico-morale. Per la sua assoluta spregiudicatezza la «verità» deve chiedersi perché la violenza dei più forti debba essere bandita. E deve saper rispondere. Altrimenti essa è semplice edificazione.

Un'ultima osservazione su Nietzsche. La sua tesi che non esistono fatti ma solo interpretazioni non va intesa in senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il divenire del mondo esista non è per Nietzsche un'interpretazione affidata da ultimo alle decisioni storiche e quindi cangianti dell'uomo: che il divenire (la storia, il tempo) esista è per Nietzsche — anche per Nietzsche — l'incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è necessario negare ogni realtà eterna, immutabile, «divina» che sovrasti il divenire e lo domini e guidi. Questa «verità» è la Grande Fede al cui interno cresce l'intera storia dell'Occidente e, ormai, del Pianeta. La fede che da tempo, nei miei scritti, si invita a dar conto del suo incontrastato potere.

(31 agosto 2011)