Sulle (nostre) vacanze

 

Confesso di non aver mai capito perché tante persone siano convinte che una vacanza divertente significhi mettersi infradito e occhiali da sole e avanzare come formiche in un traffico infernale fino a stazioni turistiche rumorose, calde e affollate, per assaggiare un "sapore locale" che è per definizione rovinato dalla presenza di turisti. [...] Probabilmente fa davvero bene all'anima essere un turista, anche se solo una volta ogni tanto. Non bene nel senso di rigenerante o ravvivante, però, piuttosto nel senso di truce, sguardo di ghiaccio, guardiamo-in-faccia-la-realtà-e-troviamo-il-modo-di-affrontarla. La mia esperienza personale non è stata che viaggiare per il Paese ti apra la mente e ti rilassi, né che i cambiamenti radicali di posto e contesto abbiano un effetto salutare, bensì che il turismo intranazionale sia radicalmente asfissiante, e umiliante nel modo più duro possibile: ostile alla mia fantasia di essere un individuo vero, di vivere in qualche modo al di fuori e al di sopra di tutto. Essere turisti di massa, per me, significa diventare puri americani dell'ultimo tipo: alieni, ignoranti, smaniosi di qualcosa che non si potrà mai avere, delusi come non si potrà mai ammettere di essere. Significa contaminare, per mera ontologia, quell'incontaminatezza che si è andati a sperimentare. Significa imporre la propria presenza in luoghi che sarebbero, in tutti i sensi non-economici, migliori e più veri senza di noi. Significa, nelle code e negli ingorghi, transazione dopo transazione, confrontarsi con una dimensione di se stessi che è tanto ineluttabile quanto dolorosa: come turisti, diventiamo economicamente rilevanti ma esistenzialmente deprecabili, insetti su una cosa morta.

 

David Foster Wallace, Considera l'aragosta (2006)