Benedetto Croce

Il senso politico

(1924)

 

[…] che cos'è poi effettivamente lo Stato? Nient'altro che un processo d'azioni utili di un gruppo d'individui o tra i componenti di esso gruppo; e per questo rispetto non c'è da distinguerlo da nessun altro processo di azioni di nessun altro gruppo, e anzi di nessun individuo, il quale isolato non è mai e sempre vive in qualche forma di relazione sociale. Né si guadagna cosa alcuna col definire lo Stato come complesso di istituzioni o di leggi, perché non c'è gruppo sociale né individuo che non possegga istituzioni e abiti di vita, e non sia sottomesso a norme e a leggi. A rigore, ogni forma di vita è, in questo senso, vita statale […].

La parola «Stato», del resto, che fu messa in uso nel suo significato politico dagli italiani del Rinascimento, sembra quasi un paradosso verbale, perché richiama la «statica» in una cerchia come la vita politica, che, al pari di ogni vita, è dinamica, o, per meglio dire, spiritualmente dialettica. Certamente con la parola «Stato» si vuol designare, come si è notato di sopra, il complesso delle istituzioni, costumi e leggi che regolano le azioni, e più prossimamente il complesso delle leggi fondamentali e costituzionali. Ma, in primo luogo, le leggi stesse non sono poi altro che azioni degli individui, volontà da essi attuate e mantenute salde, concernenti (e per questa parte rimandiamo alla teoria delle leggi) certi indirizzi più o meno generali, che si stima utile promuovere. In secondo luogo, poiché questi indirizzi sono, e non possono non essere, designati dalle leggi solo in modo astratto, il tradurli in atto non è già una mera obbedienza o imitazione da parte degli individui, ma una propria creazione di questi, rispetto alla quale le leggi stanno come semplice elemento materiale, negato nella sintesi formale. Per dire la stessa cosa in modo più semplice, noto che le leggi hanno bensì la loro importanza, ma che assai più importa il modo in cui esse vengono osservate, cioè l'effettivo operare degli uomini; ed è noto che le leggi, nella interpretazione e attuazione, si allargano, si accomodano, si arricchiscono, e, insomma, cangiano. Anzi, proprio per questa ragione, non si può ammettere, in sede di pura teoria ossia di pura verità, una distinzione assai usuale nelle dottrine e nei dibattiti politici, — e che ha certamente importanza grande, ma affatto pratica: — quella tra Stato e governo; perché, per chi cerchi la concretezza e non già le astrazioni, lo Stato non è altro che il governo, e si attua tutto nel governo, e fuori della non mai interrotta catena delle azioni del governo non rimane se non la ipostasi dell'astratta esigenza di queste azioni stesse, la presunzione che le leggi abbiano un contenuto per sé e stabile, diverso dalle azioni che alla loro luce, o alla loro ombra, vengono compiute.

Per altro questa che abbiamo pronunziata è una di quelle che non a torto si chiamano «verità pericolose», in quanto facilmente sono adoperate per difendere o giustificare certe operazioni e disposizioni non lodevoli. Così la teoria critica che la grammatica sia priva di verità e consista in astrazioni e arbitri, potrebbe essere lietamente salutata dallo scolaretto che sgrammatica, laddove il significato proprio di quella teoria è che la grammatica bisogna studiarla, perché è utile, e che appunto per conseguire la sua utilità, e non per altro fine, si giova di astrazioni. L'astrattezza delle leggi e la concretezza che lo Stato ottiene solo nel governo non significano che istituzioni, costumi e leggi siano trascurabili o degni di disprezzo, e che si debba o si possa governare giorno per giorno e ora per ora, improvvisando leggi effimere e singolari, e che, non essendovi differenza tra vita normale e rivoluzione, e la vita normale essendo continua rivoluzione, si possa procedere ogni momento ad atti rivoluzionari: illazione che sarebbe un comodo sofisma, fondato, come ogni sofisma, sopra un bisticcio e un celato trapasso da un genere all'altro. Nonostante che la loro natura sia astratta, di leggi non si è mai fatto e non si può far di meno. A ragione esse sono riverite come (al dire di Aristotele) «intelligenza senza cupidità», ossia volontà che l'individuo stesso che l'ha creata s'impegna a non toccare e a non turbare coi suoi interessi appetiti. E tutti domandano leggi e costanza di leggi per poter disporre la propria vita nell'avvenire formandone il disegno, il quale sarà bensì variato dagli incidenti, ma pure spiegherà la sua efficacia; e la relativa fermezza delle leggi e quel che si chiama la «pace», così cara al cuore di ogni uomo laborioso; e sulle istituzioni, leggi e costumanze sorge la forza e l'attrattiva della tradizione e del passato; come, per converso, i governi che non si fondano su alcun diritto ma sul semplice fatto, non mettono radici o le mettono con grande lentezza e stento. I popoli antichi singolarmente celebravano i legislatori, fondatori e riformatori degli Stati; perché, se gli uomini di guerra e di diplomazia rappresentano la forza dell'azione nel presente, la salvezza degli Stati dai pericoli e dalle rovine, e le vittorie e le conquiste, i legislatori rappresentano la conservazione e l'accrescimento di questi benefizi nel futuro, mercé le istituzioni che servono a garantirli. La polemica e la satira contro i «bigotti», come li chiamano, delle leggi e le « vestali » delle istituzioni possono ben avere qualche ragione contro la superstiziosa timidezza che talvolta impaccia la vita fattiva dello Stato; l'altra polemica, che vi si congiunge, avverso i formalisti giuristi, vale contro la pedanteria e la superficialità che, appigliandosi a un elemento astratto, non lasciano scorgere la realtà dei moti storici e dei cangiamenti avvenuti e irrevocabili. Ma biasimo non minore, e forse più grave, meritano coloro che difettano nel senso della tradizione, della continuità, della legalità, ancorché volenterosi e operatori di bene, di bene necessariamente labile e poco profondo in quanto si appoggia unicamente sull'arbitrio del singolo individuo. Se gli altri possono essere tacciati di scarsezza nel senso politico, questi sono certamente scarsi nel senso giuridico, che è poi anch'esso una forma o un caso speciale del senso politico, preso nella sua integrità.

Alla risoluzione della realtà dello Stato in quella delle azioni politiche, e delle azioni politiche nelle azioni utili, sembra opporsi la concezione largamente accettata che l'origine e il reggimento dello Stato siano dovuti alla forza, concetto che si presenta a primo aspetto come direttamente opposto o almeno assai diverso da quello di utilità e di convenienza economica. E non è mancato in questa parte il tentativo eclettico di combinare i due concetti ritenuti opposti o diversi, e porre la forza o la violenza nella nascita degli Stati e il rapporto di convenienza utilitaria nella loro vita e svolgimento: il quale tentativo ci dà occasione di osservare che la «nascita o l'«origine», che in questi e in altri simili casi si ricerca, non è punto un fatto storico, ma è l'origine, il nascimento, la natura eterna ossia l'idea dello Stato, e perciò non vi ha luogo a una distinzione storica di origine e svolgimento, di età primitiva e di età posteriore. L'uomo (come sapevano e dicevano già gli antichi) è un essere sociale o politico per sua natura; e lo Stato (come diciamo noi moderni) non è un fatto, ma una categoria spirituale. Un'altra osservazione bisogna tener presente, di non restringere l'idea di forza alla grossolana rappresentazione che la parola suol suggerire, quasi un prendere per il collo altrui, piegarne la cervice, atterrarlo, e simili; ma di pensarla nella sua piena verità che è di tutta intera la forza umana e spirituale, e comprende la sagacia dell'intelletto non meno del vigore del braccio, la previdenza e la prudenza non meno dell'ardimento e dell'audacia, la dolcezza non meno della severità, il candore non meno della perspicacia o addirittura della malizia, la virtù della bellezza non meno della bellezza della virtù.

Inteso così rettamente il concetto di forza, ne segue che non si può concepire la forza distribuita in modo che, in una moltitudine di uomini, uno o taluni la posseggano e gli altri no, uno o taluni ne posseggano più e altri ne posseggano meno; sicché quell'uno o quei taluni s'impongano agli altri e li signoreggino. La varia distribuzione di quella forza non è quantitativa ma qualitativa; ed a varietà di attitudini e di capacità e di virtù, di cui ciascuna cerca il suo complemento nelle altre, ciascuna ha bisogno delle altre, ciascuna reciprocamente può imporsi alle altre, minacciarle della privazione del proprio sussidio, esercitare, come si dice, una pressione sulle altre. E il risultato di queste varie pressioni è l'accordo sopra un modo di vivere, il reciproco consenso. Il dilemma se lo Stato si fondi sulla forza o sul consenso, e il quesito se legittimo sia lo Stato dovuto alla forza o solo quello dovuto al consenso, vanno messi in compagnia con la distinzione di sopra ricordata tra Stato e governo; perché, in verità, forza e consenso sono in politica termini correlativi, e dov'è l'uno, non può mai mancare l'altro. Consenso (si obietterà) «forzato»; ma ogni consenso è forzato, più o meno forzato ma forzato, cioè tale che sorge sulla «forza» di certi fatti, e perciò «condizionato»: se la condizione di fatto muta, il consenso, com'è naturale, viene ritirato, scoppiano il dibattito e la lotta, e un nuovo consenso si stabilisce sulla condizione nuova. Non c'è formazione politica che si sottragga a questa vicenda: nel più liberale degli Stati come nella più oppressiva delle tirannidi, il consenso c'è sempre, e sempre è forzato, condizionato e mutevole. Se così non fosse, mancherebbero insieme e lo Stato e la vita dello Stato.

Traducendo in altri vocaboli gli stessi termini di questa relazione, e chiamando «autorità» tutto quanto rappresenta il momento della forza (promessa o minaccia che sia, annunzio di premio o di pena), e «libertà» quanto rappresenta il momento della spontaneità e del consenso, deve dirsi che in ogni Stato autorità e libertà sono inscindibili (e si pensi anche qui agli estremi de1 dispotismo e del liberalismo): la libertà si dibatte contro l'autorità, e pur la vuole, e senz'essa non sarebbe; e l'autorità reprime la libertà eppure la tien viva o la suscita, perché senz'essa non sarebbe. Si celebra la libertà: a ragione. Quale parola fa battere con più calore e dolcezza il cuore umano? Non ce n'è forse altra che abbia pari potere se non quella di amore; e in certo senso il contenuto delle due parole confluisce in uno, perché la libertà, come l'amore, è la vita che vuole espandersi e godere di sé, la vita in tutte le sue forme e sentita da ciascuno a modo proprio, in quella infinita varietà, in quell'individualità di tendenze e di opere onde s'intesse l'unità dell'universo. E intendiamo qui per «libertà » nient'altro che questa gioia del fare, questa gioia del vivere, la «naturalis facultas eius quod cuique facere libet», e non punto la libertà morale che al suo luogo sogliono scorgere sola porre i frigidi moralisti, capaci, con la loro «libertà morale», di falsificare perfino gl'ingenui impeti ed abbandoni di Romeo e Giulietta! Ma a ragione altresì si celebra l'autorità, l'ordine, la regola, il sacrifizio che ciascuno deve a ciascuno e tutti a tutti, e che a ii potenziamento di ciascuno in ciascuno e di tutti in tutti: se la parola «libertà» sorride all'animo, quella di «autorità» lo rende serio e severo. Il torto è solo degli esclusivi celebratori della forza o dell'autorità, e del consenso o della libertà, che dimenticano che il termine da essi escluso è già incluso nell'altro accolto, perché suo correlativo. Il politico pratico finisce col dire con Giuseppe de Maistre: che bisogna sempre predicate ai popoli i benefici dell'autorità e ai principi quelli della libertà.

Non si vuol negare che nelle dispute per la libertà contro l'autorità o per l'autorità contro la libertà, per il principio del consenso contro quello della forza, e all'inverso, come nelle altre per lo Stato contro il governo, siano sovente in questione, quasi per speculum et in aenigmate, cose assai importanti; ma sono cose che concernono situazioni storiche e contingenti e appartengono agli affetti e agli interessi dei cittadini di un determinato Stato in un determinato tempo, e che poi solo per immaturità filosofica, talvolta per industria oratoria e per prepotenza polemica, vengono innalzate a supremi concetti o a dipendenze e deduzioni di concetti supremi, dando valore di concetti alle metafore adoperate, trasformando in questione speculativa questioni di politica fattiva. Così anche non si vuol negare che la determinazione di sovranità, la ricerca della persona o delle persone in cui, secondo le varie forme di Stato, s'incorpora la sovranità, possano avere significato e importanza pratica; ma, d'altra parte, è certo che, nella pura teoria, quella determinazione non ha luogo e quella ricerca non ha senso. Fintanto che si pensa che la forza sia una sostanza omogenea, distribuita solo in vari gradi quantitativi tra i componenti di uno Stato, è logico che si definisca la sovranità il possesso della forza o della maggiore forza, e s'indaghi, secondo le forme degli stati, dove essa sia riposta. Ma, succeduta a quella inesatta concezione l'altra della diversità e specificazione qualitativa, a altrettanto logico concludere che, in uno Stato, ciascuno è a volta a volta sovrano e suddito: legge alla quale non si sottraggono neppure i re, che non poche volte hanno in modo espresso lamentato la loro «mancanza di libertà», e della quale godono perfino gli infimi, coloro che non hanno nulla e non ambiscono nulla e ai quali lode o biasimo (come ai «Pulcinelli» della seconda parte del Faust) sono indifferenti. La sovranità, in una relazione, non è di nessuno dei suoi componenti singolarmente preso, ma della relazione stessa. Veramente quando si è stretti a dover determinarla in qualcosa che superi e domini la relazione stessa, si è tentati di rispondere che il sovrano e Dio o l'Idea o la Storia (omnis potestas a Deo), cioè a mutare quella questione senza senso in un'altra, che ha senso. E se la sovranità è in ogni parte della relazione nec cubat in ulla, cade anche, come destituita di valore speculativo, la divisione degli Stati secondo le persone che esercitano la sovranità, e anzitutto la celebre tripartizione in monarchia, aristocrazia e democrazia. La quale serba bensì qualche significato filosofico, ma non in rapporto al posto da assegnare alla sovranità, sì in quanto discerne tre momenti di ogni vita politica: la collaborazione che è di tutti, il consiglio che è dei pochi, ottimati o aristocratici, la risoluzione che a dell'uno. Ma in questo significato la tripartizione, anziché designare le forme di Stati, designerebbe piuttosto la composizione organica di qualsiasi Stato, cioè dell'unico Stato.

Le teorie politiche, finora respinte perché teorie unilaterali, hanno per ciò stesso almeno questo merito, di fondarsi sopra un aspetto o momento reale e di ricordarlo enfaticamente nei casi in cui si tende a dimenticarlo o a negarlo. Ma c'è una teoria politica che non possiede nemmeno simile merito e non si fonda su alcun momento della relazione politica, ed a tuttavia quella che vanta forse maggior numero di seguaci: la teoria che, per evitare fraintendimenti, chiameremo non già democratica e neppure giacobina, ma, quale essa è, egualitaria. «Democratismo», infatti, indica la tendenza a far pesare più fortemente la massa, il popolo o la plebe nei consigli e nella deliberazione politica, ed è sempre questione empirica, di più e di meno; e «giacobinismo» designa l'atteggiamento pratico, che, movendo da un astratto ideale, ricorre all'imposizione e alla violenza per attuarlo; onde «giacobini» sono chiamati non solo gli estremi democratici, ma tutti coloro, anche estremi conservatori e aristocratici, che esercitano simile imposizione e violenza, per solito poco duratura e poco feconda. E il democratismo sarà, nelle circostanze date, plausibile o no, e il giacobinismo, sempre pochissimo plausibile; ma l'uno e l'altro non sono intrinsecamente impossibili e assurdi, com'è invece la teoria egualitaria. Il presupposto di questa è l'eguaglianza degli individui, messa a fondamento degli Stati: eguaglianza che non sarebbe pensabile se non nella forma di autarchia, del pieno appagamento dell'individuo in sé medesimo, che non ha nulla da chiedere all'altro, al quale è uguale; e perciò in una forma così fatta, che non può valere a fondare lo Stato, ma per contrario ne mostra la superfluità, essendo, in tale ipotesi, ogni individuo uno Stato a sé. Nemmeno un «contratto» possibile tra codesti autarchi, mancando la materia del contrattare, la diversità, fondamento dei reciproci diritti e doveri. Affinché sorga lo Stato in questa ipotesi, deve introdursi un deus ex machina, e piombar giù dal cielo o distaccarsi improvviso uno o taluni dagli altri, come disuguali dagli altri e dissimili: che sarebbe poi l'annullamento della ipotesi e di tutta la teoria. Alla quale non vorremo negare, come non abbiamo negato alle altre, l'efficacia che potè avere o che ha ancora e riavrà nell'avvenire in quanto mito di certe tendenze e bisogni economici e morali, come non neghiamo a una sua derivazione, alla teoria della maggioranza, valore di espediente pratico e di simbolo di quel che praticamente possibile in un dato momento; ma, certo, nella scienza politica la sua falsità è totale, e quando la si toglie a criterio, ogni buon giudizio delle cose politiche urta in ostacoli insormontabili e finisce con lo smarrirsi. La «libertà» e la «fraternità», che quella storia fa seguire all'idea dell'«eguaglianza», sono così vuote e, come vuote, aperte a ogni arbitrio, che bastano a spiegare i vituperi scagliati contro quelle nobili parole da uomini di vivo senso storico e politico, divenuti, in odio a esse, appassionati partigiani della « forza», parzialmente e grossolanamente intesa: della forza, si direbbe, di prendere in primo luogo a scappellotti i creduli in quelle formule insulse e coloro che le vanno ripetendo a uso dei gonzi. Che cosa c'è, infatti, di più stupido della «libertà» e fraternità», attribuite a una fila di fredde, lisce ed eguali palle da bigliardo? Il che ci mena a dire che la teoria egualitaria, per la quale non si trova appicco logico nel rapporto politico, ha la sua vera origine negli schemi della matematica e della meccanica, inetti a comprendere il vivente; e infatti, sebbene rappresenti una stortura di tutti i tempi e sempre risorga nuova, la sua grande epoca fu secolo dominato dalle scoperte della meccanica.

Sembrerebbe che nello smarrimento del senso e giudizio politico non si possa andar giù della dottrina egualitaria. E pur si va giù, e per effetto dello spasimo stesso che quella ideologia eccita nelle menti e negli animi col promettere rispetto all'eguaglianza e all'astratta libertà dell'eguaglianza, e poi col violarla sempre, perché ogni svolgimento e conclusione della teoria, e ogni tentativo di attuazione pratica che muova da quelle premesse, altera l'eguaglianza e comprime la libertà, sia pure (secondo la spiritosa trovata del Rousseau) al fine di «costringere gli uomini a essere liberi»! A salvare principio della eguaglianza e della libertà non si presenta, dunque, altro partito che la concezione egoarchica o anarchica, la sola che prometta pieno e intero godimento della libertà all'uomo, se anche capovolga tutto giudizio sulla storia quale si svolta fino a noi, e trasferisca l'ammirazione dagli uomini sociali agli antisociali. Ma questa teoria, che nasce dalle viscere della teoria egualitaria, è, come si già notato, la figlia che esercita le vendette sulla genitrice, la critica e ironia dell'egualitarismo, la sua riduzione all'assurdo, e, al pari della teoria madre, non può dirsi teoria politica, giacche nega l'oggetto, che dovrebbe spiegare.

Benedetto Croce e il conte Alessandro Casati, 22 ottobre 1946
Benedetto Croce e il conte Alessandro Casati, 22 ottobre 1946