Original English Text

 

Edmund Burke

(1729-1797)

 

Reflections on the

Revolution in France

 

 

(Published in October 1790. Eleventh Edition 1791)

 

 

Non sarà inutile informare il lettore che le seguenti Riflessioni sulla Rivoluzione francese trassero origine da uno scambio epistolare tra l'Autore ed un giovane gentiluomo parigino, che l'onorò col richiederne l'opinione riguardo alle importanti vicende che dal momento in cui si verificarono hanno costantemente occupato l'attenzione di tutti gli uomini. […]

Dalla lunga lettera che vi ho inviata potrete vedere, Signore, che sebbene io desideri sinceramente che la Francia sia vivificata da uno spirito di libertà razionale e sebbene io vi ritenga sinceramente impegnati a provvedere un'assemblea permanente in cui tale libertà possa risiedere, oltre ad un organo efficace attraverso il quale possa agire, ho sfortunatamente dei dubbi su svariati aspetti fondamentali delle vostre azioni recenti. […]

Tutto considerato, la Rivoluzione francese è la più stupefacente mai avvenuta finora nel mondo. […]

La mattina del 4 novembre scorso il dott. Richard Price, un noto pastore non conformista, predicò al suo circolo, adunato nella chiesa dissidente del vecchio ghetto un sermone eccezionale per la sua eterogeneità2, in cui si ritrovano, e neanche malamente espressi, alcuni buoni sentimenti morali e religiosi, impasticciati con varie opinioni e riflessioni politiche; ma l'ingrediente fondamentale è costituito dalla Rivoluzione francese. […] il nostro teologo politicante procede dogmaticamente ad affermare che, in base ai princìpi della Rivoluzione, il popolo inglese ha acquisito tre diritti fondamentali, i quali tutti, secondo lui, compongono un solo sistema e si riassumono in una breve frase. Noi avremmo cioè acquisito il diritto: 1) a scegliere i nostri reggitori; 2) a destituirli per cattiva condotta; 3) a dar forma ad un governo da noi stessi. […]

Questi signori del sermone nel vecchio ghetto, per tutto il loro ragionare sulla Rivoluzione del 1688, hanno talmente dinanzi agli occhi e nel cuore una Rivoluzione che avvenne in Inghilterra circa quarant'anni prima e la presente Rivoluzione francese, che le confondono costantemente tutt'e tre insieme. È necessario separare ciò che essi confondono, richiamando le loro fantasie agli atti della Rivoluzione che noi riveriamo per scoprire i veri princìpi. E se i princìpi della Rivoluzione del 1688 sono rintracciabili in luogo alcuno, essi certo si trovano tutti nella legge conosciuta col nome Dichiarazione dei Diritti. In questo saggio, sobrio e ponderato documento, formulato da grandi giuristi e statisti e non da uomini inesperti ed in preda al calore dell'entusiasmo, non troviamo una sola allusione all'esistenza di un diritto generale «a scegliere i nostri reggitori; a destituirli per cattiva condotta; a dar forma ad un governo da noi stessi». […]

Senza dubbio durante la Rivoluzione si ebbe, nella persona di Guglielmo, una piccola e temporanea deviazione dal rigoroso ordine di una regolare successione ereditaria; ma è contrario a tutti i genuini princìpi della giurisprudenza il dedurre una massima generale da una legge occasionata in circostanze speciali e riguardante un particolare individuo. Privilegium non transit in exemplum [L'eccezione non costituisce esempio]. Se mai sorse circostanza favorevole all'enunciazione del principio che solo un re scelto dal popolo è legittimo, questa si presentò indubbiamente durante la Rivoluzione. Il fatto che non lo si proclamasse allora dimostra che non lo si dovesse proclamare né allora né mai. [...]

Vorrei, prima di continuare, indugiarmi a considerare alcuni indegni artifici cui ricorrono i fautori della elezione come unico titolo legittimo al trono per rendere la difesa dei giusti princìpi della nostra costituzione un compito alquanto impopolare. Codesti sofisti inventano una causa fittizia e personaggi finti, a favore dei quali essi amano supporre che voi parliate ogni volta che dite qualcosa a difesa della natura ereditaria della corona. È loro abitudine discutere come si trovassero in conflitto con qualcuno di quei violenti e fanatici sostenitori della schiavitù, che un tempo sostenevano quello che io credo nessuno oggi sostenga ancora, cioè «che la corona si trasmette per diritto ereditario ed irrevocabile». Questi vecchi fanatici di un unico potere arbitrario proclamavano dogmaticamente che il potere reale ereditario era l'unico governo legittimo al mondo, proprio come i nostri nuovi fanatici del potere arbitrario popolare sostengono che l'elezione popolare è la sola fonte legittima di autorità. Gli entusiasti della vecchia prerogativa ragionavano stupidamente, è vero, e forse anche empiamente, come se la monarchia avesse una sanzione divina maggiore di ogni altra forma di governo, e come se il diritto ereditario a governare fosse astrattamente irrevocabile in ogni persona che si trovasse ad accedere al trono ed in ogni circostanza, il che nessun diritto civile o politico può essere. […]

Nessun governo potrebbe reggersi per un momento se potesse venir rovesciato per una ragione così vaga ed indefinita come un giudizio di «cattiva condotta». I capi della Rivoluzione si guardarono bene dal fondare l'abdicazione virtuale di re Giacomo su un principio così leggero ed incerto. Lo accusarono niente meno che di un disegno, confermato da una moltitudine di atti chiaramente illegali, di sovvertire la chiesa protestante e lo Stato, e le loro fondamentali, incontrovertibili leggi e libertà; lo accusarono di aver rotto il contratto originale tra re e popolo. Il che ammontava a ben più che cattiva condotta. Una necessità grave ed imperiosa li obbligò a far questo passo, che essi tuttavia compirono con riluttanza infinita, e solo perché la necessità è la più rigorosa delle leggi. La loro fede nella preservazione futura della costituzione non riposava in rivoluzioni future, che anzi il fine massimo di tutte le loro leggi fu di rendere quasi del tutto impossibile ad ogni futuro sovrano costringere gli Stati del reame a ricorrere di nuovo a quei rimedi violenti. Lasciarono la corona così come era sempre stata nella stima e negli occhi della legge, perfettamente irresponsabile. […]

Il dottor Price giustamente condanna nel suo sermone l'uso di rivolgersi al re in termini di grossolana adulazione. Egli propone, in luogo di questo stile nauseante, di ricordare a Sua Maestà, in ogni occasione congratulatoria, che «egli deve considerarsi più propriamente il servo che il sovrano del suo popolo». Come complimento non mi sembra davvero troppo lusinghiero. Quelli che sono servi, di nome e di fatto, non amano che venga loro ricordata la propria condizione, i loro doveri ed obblighi. Lo schiavo, nella vecchia commedia, dice al suo padrone: «Il ricordarmelo è quasi un insulto». Non è piacevole come complimento, né utile come ammaestramento. […] I re, in un certo senso, sono indubbiamente servi del popolo, perché il loro potere non ha altro fine razionale che quello del bene generale; ma non è affatto vero che essi siano, nel senso ordinario (per lo meno secondo la nostra costituzione), simili a servi, l'essenza della situazione dei quali è di obbedire ai comandi di qualcun altro, e di poter essere rimossi a piacimento. Il re di Gran Bretagna non obbedisce ad alcuno; tutte le altre persone lo sono, individualmente e collettivamente, sottoposte a lui, e gli debbono obbedienza per legge. La legge, che non sa né adulare né insultare, chiama questo alto magistrato non il nostro servo, come lo definisce questo umile teologo, ma «il nostro sovrano Signore il re»; e noi, da parte nostra, abbiamo imparato a parlare il linguaggio primitivo della legge, non il confuso gergo dei pulpiti di questa nuova Babilonia.

Siccome egli non deve obbedire a noi, ma noi dobbiamo obbedire in lui alla legge, la nostra Costituzione non ha provveduto in alcun modo a renderlo, come un servo, responsabile. […]

La cerimonia di deposizione di un re, di cui questi signori parlavano con tanta facilità, raramente può essere, e forse mai, priva di violenza. Si tratta allora di un caso di guerra e non di disquisizioni costituzionali. Le leggi tacciono in mezzo al fragore delle armi ed i tribunali rovinano insieme alla pace che non son più capaci di mantenere. La Rivoluzione del 1688 fu portata a compimento con l'ausilio di una guerra giusta, nel solo caso in cui una guerra, ed a maggior ragione una guerra civile, possa essere giusta. «Le guerre sono giuste per coloro cui sono necessarie» (Livio, IX, i). il problema della detronizzazione, o diciamo pure «destinazione» di un re, per usare l'espressione preferita di questi signori, sarà sempre, come lo è sempre stata, una questione di Stato di eccezionale gravità, completamente al di fuori delle norme del diritto; e come ogni altra questione di Stato, si tratterà di disposizioni, di mezzi e di conseguenze probabili piuttosto ce di diritti sanciti dalla legge. Siccome è una soluzione cui non si ricorre per abusi comuni, è bene che non sia contemplata da menti comuni. La linea teorica di demarcazione che segna il confine tra l'obbedienza e la resistenza è debole, oscura e non facilmente definibile. Non è determinata da un singolo o da un singolo accadimento. Prima che vi si possa pensare, i governi dovranno aver veramente aver sottostato ad abusi ed essere preda dello scompiglio, le prospettive per il futuro dovranno essere altrettanto disperate dell'esperienza del passato. […]

Il terzo principio giuridico promulgato dal pulpito del vecchio getto, cioè il «diritto a formare un governo da noi stessi» si discosta almeno quanto gli altri due, in linea sia di fatto che di principio, dagli eventi svoltisi durante la Rivoluzione. La Rivoluzione ebbe come fine la preservazione delle nostre antiche ed incontrovertibili leggi e libertà di quella antica costituzione di governo che di legge e libertà è la nostra sola garanzia. […]

È impossibile non osservare come, dalla Magna Charta fino alla Dichiarazione dei Diritti, sia stata politica uniforme della nostra costituzione esigere e asserire le nostre libertà come inalienabile eredità trasmessa a noi dai nostri antenati, e trasmissibile alla nostra posterità, come proprietà appartenente in modo speciale al popolo di questo regno, senza alcun riferimento a qualsiasi altro diritto più generale o antecedente. In questo modo la nostra Costituzione preserva l'unità pur nella grande diversità delle sue parti. Abbiamo una corona ereditaria, un aristocrazia ereditaria, ed una Camera dei Comuni ed un popolo eredi di privilegi, franchige e libertà derivati loro da antichissimi antenati.

Questa linea di condotta mi appare frutto di profonda riflessione; o piuttosto l'effetto felice di una conformità con la natura in cui si manifesta una saggezza nativa superiore alla riflessione. Lo spirito di innovazione è in genere il risultato di un temperamento egoista e di vedute limitate. I popoli che non si volgono indietro ai loro antenati non sapranno neanche guardare al futuro. Inoltre il popolo inglese sa bene che l'idea ereditaria fornisce un principio sicuro di conservazione ed un principio sicuro di trasmissione, senza affatto escluderne uno di miglioramento. Lascia piena libertà di acquisire mentre garantisce il possesso di ciò che si acquisisce. […]

In questo modo la nostra libertà si trasforma in nobile indipendenza, di aspetto imponente e maestoso, dotata di genealogia e di illustri antenati, di divisa araldica e di cotta d'armi, di galleria di ritratti, di iscrizioni monumentali, di documenti, prove e titoli. In tal modo procuriamo riverenza alle nostre istituzioni civili per le stesse ragioni per cui la natura ci insegna a riverire gli uomini: per la loro età e per i loro antenati. Tutti i vostri sofisti non potranno mai produrre niente di più adatto alla preservazione di una libertà razionale e vigorosa del cammino scelto da noi, che abbiamo preferito fare depositari dei nostri diritti e privilegi la natura ed il cuore piuttosto che affidarci a speculazioni astratte e ritrovati ingegnosi.

Avreste potuto facilmente profittare del nostro esempio, dando alla libertà da voi testé recuperata una corrispondente dignità. I vostri privilegi, seppure sospesi, non erano scomparsi dalla memoria del popolo. La vostra costituzione ebbe a soffrire, è vero, durante il vostro allontanamento dal potere, grandi scempi e dilapidazioni; ma è pur vero che avevate ancora una parte delle mura e certo tutte le fondamenta di un nobile e venerabile castello. Avreste potuto riparare quelle mura. costruire su quelle vecchie fondamenta. […]

Nei vostri antichi Stati voi avevate tutti questi vantaggi: ma avete preferito agire come se non aveste mai conosciuto la società civile, come se doveste ricominciare tutto dai primi elementi. Così avete cominciato male, perché avete cominciato col disprezzare tutto quello che vi apparteneva. […] Dal rispetto dei padri avreste appreso il rispetto di voi stessi. Non avreste allora scelto di considerare il popolo francese come un popolo nato ieri, come una nazione composta, fino alla emancipazione del 1789, da servi di nascita vile. Non vi sareste lasciati dipingere come una banda di schiavi mori, liberati all'improvviso dalla loro schiavitù, e quindi perdonabili per ogni abuso di quella libertà a cui non erano abituati ed a cui erano poco disposti; ciò solo per fornire ai vostri panegiristi, a spese del vostro onore, una qualche scusa per alcune cospicue enormità da voi commesse. […]

Considerate cosa avete guadagnato con quelle stravaganti e presuntuose speculazioni che hanno insegnato ai vostri capi a disprezzare tutti i loro predecessori e i loro contemporanei ed infine sé stessi, fino al punto di esser divenuti veramente disprezzabili. La Francia, seguendo quei falsi lumi, ha comprato ovvie calamità ad un prezzo ben più alto di quello pagato da ogni altra nazione per l'acquisto di inequivocabili benedizioni. La Francia ha comprato la povertà col delitto! La Francia non ha sacrificato la propria virtù al proprio interesse, ma ha addirittura prostituito la propria virtù per abbandonare il proprio interesse! Tutte le altre nazioni hanno iniziato l'edificazione di un governo nuovo o la riforma di quello vecchio con l'istituire per la prima volta o col dar nuova forza a una qualche forma di rito religioso. Tutti gli altri popoli hanno ricercato le fondamenta della libertà civile in una maggiore severità di costumi ed in un sistema morale più austero e più virile. La Francia, allentando le redini dell'autorità regale, ha raddoppiato al tempo stesso la licenziosità di una feroce dissolutezza dei costumi e di una irreligiosità insolente nelle opinioni e negli atti; ed ha esteso a tutte le classi sociali, come se si trattasse di comunicare un privilegio o di far partecipi tutti di un beneficio prima occulto, tutta l'infelice corruzione che era usualmente la malattia esclusiva della ricchezza e del potere. Questo è uno dei nuovi princìpi d'eguaglianza in Francia. […]

Tutto ciò era contro natura. Il resto è del tutto naturale. È stato proprio il successo dei loro piani a recar loro la peggiore punizione: le leggi infrante, i tribunali sovvertiti, l'industria svigorita, il commercio in declino, le tasse non pagate e il popolo impoverito, la Chiesa saccheggiata senza che lo Stato ne traesse beneficio, l'anarchia civile e militare elevata a costituzione del regno, ogni cosa umana e divina sacrificata all'idolo del credito pubblico, con la bancarotta nazionale come conseguenza; e a completamento di tutto ciò, le garanzie di carta di un potere nuovo, precario, vacillante, le screditate garanzie di carta della frode impoverita e della rapina ridotta alla mendicità usate come valuta a soccorrere un impero, in luogo dei due metalli che rappresentano da sempre il credito perenne e convenzionale dell'umanità, che sparirono nascosti nella terra da cui provenivano non appena fu sistematicamente sovvertito il principio di proprietà che li creò e che essi rappresentano.

Erano necessari tutti questi errori ? Erano forse il risultato inevitabile della lotta disperata di patrioti decisi, costretti a farsi largo tra il sangue ed il tumulto per guadagnarsi l'approdo alla quieta spiaggia di una tranquilla e prospera libertà? No, niente affatto! Le novelle rovine di Francia, che ci percuotono d'orrore dovunque rivolgiamo gli sguardi, non sono frutto della devastazione della guerra civile; esse sono il monumento triste ma istruttivo eretto ad opinioni sconsiderate ed ignoranti venute a turbare un'epoca di pace profonda. Esse sono la conseguenza di un'autorità imprudente e presuntuosa, perché irresistibile e non osteggiata. […]

Quel che mi colpì subito della convocazione degli Stati Generali fu un grande cambiamento sopravvenuto nella prassi tradizionale. La rappresentanza del Terzo Stato era composta di seicento membri, eguale quindi alla rappresentanza degli altri due ordini presi insieme. Se gli Stati avessero deliberato separatamente il numero non avrebbe avuto importanza, eccetto che nel comportare una spesa maggiore. Ma quando divenne chiaro che i tre Stati dovevano riunirsi a deliberare insieme, allora il motivo di questa rappresentanza numerosa, e l'effetto che ne sarebbe derivato, divenne d'un tratto ovvio. Una diserzione minima dei membri degli altri due ordini avrebbe riversato il potere di ambedue nelle mani del terzo. Infatti, l'intero potere della nazione venne presto a trovarsi in un solo corpo, il Terzo Stato. La composizione di esso assunse quindi importanza di primo piano. […]

C'erano, sì, alcune eccezioni degne di nota; ma la massa era composta di oscuri avvocati di provincia, di amministratori di piccole giurisdizioni locali, di procuratori di campagna, di notari e dell'intera baracca degli arbitri delle liti municipali, dei fomentatori e capi delle guerriglie vessatorie del villaggio. Dal momento in cui lessi la lista vidi distintamente quel che ne sarebbe seguito, e con grande esattezza. […]

In seduta di apertura degli Stati Generali il Cancelliere di Francia affermò, preso dalla foga oratoria, che tutte le occupazioni sono onorevoli. Se con questo egli avesse inteso dire che nessuna forma di onesto impiego è disonorevole, certo non si sarebbe allontanato dal vero. Ma vi sono delle distinzioni da tener presenti, proprio in onore del vero, prima di poter asserire che tutte le occupazioni sono onorevoli. Non si può dire, ad esempio, che le attività di parrucchiere o di candelaio apportino particolare onore, per non dire di innumerevoli altre attività più servili di queste. Queste categorie di persone non dovrebbero certo soffrire oppressione dallo Stato; ma lo Stato viene certo oppresso se queste stesse persone, individualmente o collettivamente, sono messe al controllo della cosa pubblica. Con affermazioni di questo genere, mentre credete di battervi contro il pregiudizio combattete contro il naturale ordine delle cose. […]

Tornando alla composizione di una adeguata rappresentanza dello Stato, non potremo ritener tale un'assemblea ove assieme all'abilità non sia ugualmente presente la proprietà. E dirò di più: i rappresentanti della proprietà devono predominare per numero nell'assemblea, essendo l'ingegno un principio vigoroso ed attivo e la proprietà inoperosa, inerte e timida e quindi totalmente esposta agli attacchi dell'ingegno. […]

Nella rappresentanza dovrà quindi essere presente anche la grande proprietà, a maggior protezione del generale principio della proprietà. […]

Si sostiene che ventiquattro milioni dovrebbero predominare sopra duecentomila. Vero, se la costituzione di uno Stato fosse un problema di aritmetica. Un discorso del genere si presta singolarmente bene all'ebrietà della lanterna, ma cade nel ridicolo più assoluto se esaminato da uomini che ancora possono ragionare. […]

Questa gente deve distruggere, o le sembra di non aver ragione d'essere […]. Ai loro occhi, l'esperienza è la povera saggezza degli illetterati; quanto al resto, esempi tratti dall'antico, precedenti, statuti, atti parlamentari, tengono pronta sottoterra una mina che li farà saltar tutti per aria con una sola immensa esplosione. Questa mina si chiama "i diritti dell'uomo". Contro questi non v'è usanza che conservi il suo valore prescrittivo, non v'è trattato che obblighi; non ammettono né mitigamenti né compromessi: ogni piccola detrazione dell'assolutezza delle loro pretese costituisce frode ed ingiustizia. Alla nuova luce dei diritti dell'uomo, nessun governo si ritenga protetto dalla sua lunga esistenza o dalla giustizia e mitezza della sua amministrazione. Se la sua forma non quadrerà con le teorie dei nostri interessati ragionatori, poco gli varrà l'esser vecchio e benigno; avrà lo stesso destino della più violenta tirannia o della più recente usurpazione. […]

Il principio che presiede alla formazione del governo civile non è quello dei diritti naturali, che possono esistere ed in effetti esistono indipendentemente da esso; ed esistono con molta maggiore chiarezza e ad un assai maggiore livello di perfezione astratta: ma proprio la loro perfezione in astratto costituisce il difetto in pratica. Perché avendo diritto a tutto vogliono tutto. Il governo è un espediente della saggezza umana per provvedere ai bisogni umani. Gli uomini hanno il diritto di aspettarsi che codesta saggezza provveda ai loro bisogni. E tra questi bisogni si trova quello, che denota una società civile, di porre sufficiente freno alle proprie passioni. Il viver sociale richiede non solo che le passioni degli uomini siano tenute sotto controllo, ma anche che nell'insieme dei singoli, così come avviene per ogni singolo, le inclinazioni degli uomini debbano essere frequentemente contrastate, la loro volontà controllata e le loro passioni soffocate. Questo può essere ottenuto soltanto da un potere esterno a loro e libero, nell'esercizio delle sue funzioni, da quel volere e da quelle passioni che suo ufficio imbrigliare e domare. In questo senso i freni posti agli uomini vanno annoverati, al pari delle loro libertà, tra i loro diritti. Ma siccome le restrizioni e le libertà variano con i tempi e con le circostanze ed ammettono infinite modificazioni, non possono essere stabilite una volta per tutte in una codificazione astratta; e niente è più sciocco che discuterle su un principio astratto. […]

I diritti di cui vociferano questi teorici sono tutti estremi: veri in quanto assoluti, metafisici, ma falsi se trasposti su un piano morale e politico. I veri diritti dell'uomo risiedono in una zona media, difficile a definire ma non impossibile a percepire. I diritti dell'uomo, in una società civile, sono i suoi stessi vantaggi; e questi non vengono mai espressi in assoluto, ma risiedono in equilibrate gradazioni di buono o addirittura in quanto talvolta equivale ad un compromesso tra buono e cattivo, e, perché no, anche tra due forme di cattivo. La ragione politica è un principio di calcolo: è una lunga serie di somme, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, operazioni tutte morali, e non metafisiche o matematiche, compiute su fattori squisitamente morali.

È quindi per evitare i mali dell'incostanza e della volubilità, diecimila volte peggiori di quelli dell'ostinazione e del pregiudizio più cieco, che abbiamo santificato lo Stato. Noi l'abbiamo santificato perché nessuno abbia la temerità di rivelasse i difetti o la corruzione se non con la massima cautela, o speri di riformarlo attraverso la sovversione ma piuttosto ne riguardi le mancanze con lo stesso pietoso rispetto e tremante sollecitudine con cui ci avviciniamo alle ferite di un padre. Questo saggio pregiudizio ci insegna a riguardare con orrore quei cittadini troppo solleciti nel tagliare a pezzi il corpo del loro vecchio genitore per porlo nella pentola del mago, nella speranza che erbe velenose e strani incantesimi possano ridargli salute e vigore.

È vero che la società è un contratto, ma un contratto di ordine superiore. Si possono sciogliere a piacere dei contratti minori per merci di interesse occasionale. Ma quando si tratta lo Stato con la stessa capricciosità che distingue i piccoli interessi passeggeri, quando lo si dissolve a piacere delle parti, allora lo si considera davvero alla stregua di un qualsiasi contratto concernente lo scambio di pepe, caffè, mussolina o tabacco. Bisogna guardare allo Stato con ben altra riverenza, perché è questo un contratto che riguarda ben altre esigenze di quelle pertinenti agli interessi animali di una natura effimera e corruttibile. E questo un contratto che ha in sé tutte le arti, tutte le scienze, tutte le virtù e la più grande perfezione. E siccome il fine di tale contratto non è perseguibile che nel corso di molte generazioni, ecco che questo contratto non svincola solo i vivi, ma i vivi, i morti e coloro non ancora nati. […]

Son convinto che tra i capi popolari dell'Assemblea nazionale esistano uomini di grandi qualità. Di essi, alcuni mostrano eloquenza nei discorsi e negli scritti, il che non avviene mai senza la scorta di considerevole talento ed educazione. Ma l'eloquenza può esistere anche senza una corrispondente proporzione di saggezza. Quando parlo di abilità, devo fare una distinzione. Quando essi hanno compiuto a sostegno del loro sistema rivela uomini non comuni. Ma nel sistema in sé stesso, in quanto piano teorico di una repubblica costruita allo scopo di procurare la prosperità e la sicurezza dei cittadini e per promuovere la forza e la grandezza dello Stato, confesso di non riuscire a trovare niente che dimostri, sia pure in un solo dettaglio, l'opera di una mente vasta e organizzatrice e neppure le caratteristiche proprie di una comune prudenza. […]

Non trovo niente di tutto questo in coloro che sono prominenti nell'Assemblea nazionale. Forse essi non sono così miserevolmente deficienti come appaiono. Quasi lo credo, perché ciò li metterebbe al di sotto del comune livello dell'intelligenza umana. […]

Ma sono io così irragionevole da non veder niente che meriti lode negli indefessi travagli dell'Assemblea? Non nego che tra gli infiniti atti di violenza e di follia alcuni possano essere stati buoni. A chi distrugge tutto certo capiterà di rimuovere anche qualche ingiustizia. A chi edifica tutto nuovo, non mancherà certo il destro di far qualcosa di benefico. Ma per dar loro credito di quanto hanno fatto in virtù di un' autorità usurpata, o per scusarli dei crimini in virtù dei quali si sono impadroniti di quell'autorità, dovrebbe essere manifesto che quelle cose non avrebbero potuto farsi senza fare anche una rivoluzione. E questo non è vero; perché quasi tutte le norme sancite da loro, che non siano molto ambigue, rientravano già o nelle concessioni del re, fatte volontariamente quando si riunirono gli Stati Generali, o nelle istruzioni agli Stati. Alcuni usi sono stati giustamente aboliti; ma erano tali, che se anche fossero rimasti com'erano per tutta l'eternità, avrebbero detratto poco dalla felicità e prosperità di qualunque Stato. I miglioramenti dell'Assemblea nazionale sono superficiali, i suoi errori fondamentali.

Quali che essi siano, vorrei che i miei concittadini raccomandassero ai nostri vicini l'esempio della costituzione britannica piuttosto che prendere a modello la loro per il miglioramento della nostra. Perché in essa possediamo un tesoro inestimabile. I miei concittadini non mancano, credo, di cause per qualche apprensione e lagnanza; ma queste non son dovute alla costituzione del loro paese, ma alla loro propria condotta. Ritengo che la nostra felice condizione derivi dalla nostra costituzione, ma dall'insieme di essa; non da alcune delle sue parti presa singolarmente, e in gran misura da quel che di essa abbiamo lasciato immutato nel corso di diverse revisioni e riforme, oltre che quello che vi abbiamo alterato ed aggiunto. Il nostro popolo troverà ampio impiego per uno spirito veramente patriottico, libero e indipendente, nel difendere da violazioni quanto già possediamo. Non escluderei del tutto le alterazioni, ma anche se dovessi mutare, muterei per preservare. Grave dovrebbe essere l'oppressione per spingermi al mutamento. E nell'innovare, seguirei l'esempio dei nostri avi. Farei la riparazione attenendomi il più possibile allo stile dell'edificio. La prudenza politica, un'attenta circospezione, una timidezza di fondo morale più che dovuta a necessità, furono tra i princìpi normativi dei nostri antenati nella loro condotta più risoluta. Non illuminati dalla luce di cui i gentiluomini di Francia si dichiarano così abbondantemente pervasi, agirono con una alacre coscienza della ignoranza e fallibilità del genere umano. Colui che li aveva creati così fallibili volle ricompensarli per aver agito conformemente alla umana natura. Imitiamo la loro cautela, se vogliamo meritare la loro fortuna o conservare il loro legato. Aggiungiamo, se cosi vogliamo, ma conserviamo quanto ci hanno lasciato; e restando sul saldo terreno della costituzione britannica, contentiamoci di guardare con meraviglia, piuttosto che cercare di seguire nei loro voli disperati, gli aeronauti di Francia.

 

BURKE, Edmund, Reflections on the Revolution in France (1790), tr. it. in Scritti politici, a cura di Anna Martelloni, UTET, Torino 1963.