La dea
Uguaglianza
di Elémire Zolla
La dea Uguaglianza brama ciò che è ancor più prezioso del sangue di cui era assetato Baal: la differenza specifica tra le anime, spesso simili, mai uguali. Che essa sia una
divinità falsa appare evidente soltanto che si posi l'occhio pietoso sui giovinetti indrappellati e conguagliati da qualche regime totalitario: ogni volto, sia esso suggestionato fino al consenso
e al godimento della propria servitù, sia viceversa immalinconito dalla farsa cui viene piegato, testimonia della falsità dell'Uguaglianza, la quale è inoltre bugiarda, ed in modi
insidiosi, spacciandosi per una manifestazione della carità ("Chi osa credersi migliore e comunque diverso dai suoi confratelli dementi?" ricattano i minacciosi fedeli della dea).
Invero uguagliabili appaiono gli uomini soltanto nella misura in cui sono congegni fisiologici, la distruzione della dignità ancor prima che dell'individualità è il fine del
culto ugualitario; nulla infatti impedisce di essere ugualitariamente individualistici: molte bestie lo sono. Chiunque ribadisca la comunanza che unisce gli uomini li sta separando dallo spirito
che li individua.
Esiste una forza che sempre sbugiarderà l'Uguaglianza: la Truffa, inesorabile discriminatrice fra illusi e ingannatori. Simediti la falsificazione di un qualche "maestro" la cui
fama sia stata gratuitamente confezionata dalla critica d'arte del secolo: quale uguaglianza può mai esistere tra il falsificatore, questo Robin Hood della società di massa, il quale dimostra
come non ci voglia niente a rifare quei capi d'opera, ed il suo cliente, beffato dalle valutazioni ufficiali ancor prima che frodato dall'ottimo artigiano? Quanto ai due rivali, l'organizzatore
di celebrità "artistiche" per la massa ed il falsificatore, essi sono entrambi di natura infinitamente più fina della massa suggestionabile [...] Ma la Truffa mette in luce anche un'altra
inconfondibile specie di uomini, coloro che non possono essere ingannati e non vogliono ingannare e neanche desiderano giudicare gl'ingannatori della massa. Ecco che un qualunque fatto
quotidiano divide tre tipi di uomo; a parte ogni diversità economica o genealogica, ecco distinti da un lato la massa, dall'altro i suoi manipolatori ed infine i saggi, sacerdotalmente al di
sopra della mischia e della truffa.
L'Uguaglianza pone sul trono un re di smisurata e disincarnata tirannide: la formula statistica che serve a stabilire la media. L'uomo medio statistico diventa il Redentore, la cui
imitazione è sollecitata e dovrebbe consentire ai singoli di espiare il peccato di possedere una fisionomia; guai a chi osi mai porre una domanda, provare un sentimento, svolgere uno
studio, amare un'idea che a tale Redentore non paia accessibile e consumabile. Per definizione un uomo medio non può cogliere ciò che è raro, superiore, dunque prezioso; dovranno dunque essere
immolati tutti i valori, i quali si giustificano sempre soltanto se imperniati sul loro vertice (la moralità deve mirare alla santità contemplativa, il linguaggio ai poemi classici, l'umanità al
genio).
Pochi s'avvedono dei disastri recati dal culto dell'uguaglianza, per cui ognuno si sforza di rappresentare una media tra destini incompatibili.
Così la donna moderna procura di essere tutt'insieme solerte massaia, erotica amante, cameratesca compagna di lavoro, didattica matrona, provocante giovinetta, volendo uguagliarsi a ogni
immaginabile femmina, partecipando a ogni sorte e casta, cioè a nessuna in modo schietto e felice.
Il maschio viene altrettanto centrifugato, ed il cuore moderno registra questo stress o dissennata tensione cercando di affrancarsene con l'infarto, e le fisionomie moderne diventano atone poiché
la plastica facciale andrebbe fatta e rifatta tante volte al giorno quanti destini si pretenderebbe di incarnare. Il motore immobile di questa giostra è un orgoglio minuto, angoscioso,
offeso da qualsiasi presenza superiore, un pozzo di serpenti interiore. Fin dalla puerizia l'uomo moderno è allenato a paragonarsi a tutti, quindi a degradarsi e a degradare per mantenere intatto
l'equilibrio dell'invidia universale.
[ZOLLA, Che cos'è la Tradizione (1973), Adelphi, 1998, pp. 104-106.]