Il contesto teoretico della filosofia di Friedrich Nietzsche

«... perché tutto ciò che nasce

è tale che perisce;

perciò sarebbe meglio che nulla nascesse».

 

J. W. Goethe

 

«Chi sono, e perché venni al mondo? ... / Io sono un nulla, polvere nell'immensità! ... Si perde nel vento la saga della mia vita».

 

O. Spengler

Dipinto di Vittorio Bustaffa

 

DISPERARE DELLA VERITÀ

 

La filosofia di Nietzsche nasce dal nichilismo e si erige sui suoi abissi. L’intero secolo decimonono, prima di quello appena trascorso, esperisce lo struggente dolore, quando non la disperazione, che il suo nuovo sentire davanti al suo nuovo mondo porta con sé. Solo alla fine del secolo, proprio con Nietzsche, il termine «nichilismo» diverrà il termine che indicherà quell’esperienza. Quale sia il suo significato, quale sia quell’esperienza, sono due secoli di culture e di avvenimenti a testimoniarlo.

Ma a preparare quest’esperienza, esperienza di fronte e dentro a un nuovo mondo, cosa fu? Quindi: come venne ad imporsi questa nuova visione del mondo e che mondo è questo – questo nuovo mondo? Evitando l’improbabile tentativo di individuare la causa prima di ciò, ci occuperemo invece di individuare la causa prossima, tentativo che, condotto nelle sue linee generali, risulta molto più agevole. È lo stesso Nietzsche infatti a indicarci cosa risultò decisivo nella sua giovane esperienza.

Il Tentativo di autocritica alla sua prima opera, La nascita della tragedia, contiene preziose indicazioni. Lo scritto sulla tragedia venne pubblicato nel 1872 e comparve con un titolo che per intero recitava: La Nascita della tragedia dallo spirito della musica. I tre presupposti di quest’opera sono il Nietzsche filologo, il nichilismo di Schopenhauer, il progetto di Wagner (1813-1883). Certo è il filosofo Nietzsche che fa di quest’opera un’opera importante e di valore, ma egli tratta e comprende il problema che gli sta a cuore, la visione schopenhaueriana del mondo, il nichilismo, con gli strumenti che si ritrova, gli studi di filologia fino ad allora compiuti, e affascinato dalle prospettive che su un tale terreno erano state dischiuse da un altro schopenhaueriano, Wagner1. Quel «dallo spirito della musica» che compare sul titolo lo si può capire dal rapporto che sussisteva tra Nietzsche e Wagner, tanto che una volta mutatosi, l’opera e il titolo persero il loro proposito, e Nietzsche propose poi un titolo «non equivoco»: «Grecità e pessimismo». Ecco che con ciò viene indicato il problema reale del libro: il pessimismo. Il problema del nostro giovane filosofo, accidentalmente votatosi alla filologia, è già l’abisso dal quale si innalzerà poi il pensiero dell’eterno ritorno: il pessimismo o, detto neutralmente, «il grande interrogativo circa il valore dell’esistenza», come troviamo scritto nel Tentativo di autocritica.

Conviene dunque gettare uno sguardo retrospettivo per capire cosa sia il pessimismo, che, nelle più tarde riflessioni di Nietzsche, verrà ad essere una forma del nichilismo.

È nella terza delle Considerazioni inattuali, Schopenhauercome educatore, che si staglia nel mezzo del programma d’azione wagneriano-schopenhaueriano della giovinezza, che si dice cosa fu la filosofia di Schopenhauer e quindi il perché del suo pessimismo: ciò da cui e ciò in cui quella filosofia crebbe fu il «disperare della verità», sorte toccatagli quale effetto della filosofia di Kant.

Questi, al termine della sua opera Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza (1783), scritta come chiarimento e introduzione che consentisse l’accesso alle difficili architetture e terminologie della sua opera capitale, la Critica della ragione pura (1781), pone a suggello del suo idealismo la seguente proposizione: «Ogni conoscenza delle cose che provenga dal semplice intelletto puro o dalla ragion pura non è che semplice parvenza, la verità è soltanto nell’esperienza». Stando solo a questo sembrerebbe che non sia capitato nulla di drastico alla verità, tanto da disperare, se non fosse però che Kant mostrò «come le condizioni a priori della possibilità dell’esperienza siano nel tempo stesso le fonti da cui devono esser dedotte tutte le leggi universali della natura». Ciò significa che l’esperienza e la verità dell’esperienza non sono «cose in sé» che condizionano la nostra conoscenza, ma è il nostro conoscere condizione della verità: la verità in realtà non è nulla se non una costruzione dell’intelletto.

Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragione pura (1787) sarà lo stesso Kant a valutare il cambiamento di prospettiva apportato dalla sua opera paragonandolo alla rivoluzione copernicana, perché, come con quella vi fu un’inversione di rapporti tra il Sole e i pianeti, ora l’inversione di rapporti riguardava il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: gli enti, così come essi ci appaiono, come fenomeni, sono tali in quanto si regolano sulla nostra conoscenza e non è la nostra conoscenza a regolarsi sugli oggetti. Sebbene Kant seguitasse a dire che il suo idealismo, pure penetrando per intero la sua opera, non costituisse «neppure lontanamente l’anima del sistema», pensando con ciò alla libertà intesa come chiave di volta del sistema nella Critica della ragion pratica e quanto da cui segue, ciò che ben presto della sua filosofia dovette agire fu il potenziale nichilistico, ovvero l’inconoscibilità di quanto di più prezioso appartenesse al patrimonio della tradizione: Dio e la sua esistenza, l’immortalità dell’anima e comunque tutto ciò che fosse affidato alla conoscenza razionale, fiduciosa in un ordine razionale del mondo.

In altri termini, non è più possibile conoscere ciò che è, perché le nostre rappresentazioni, ovvero ciò che noi conosciamo, ciò in cui consiste la nostra conoscenza, sono una nostra costruzione, un nostro prodotto che non garantisce un accesso al mondo vero, inconoscibile, che sta oltre le nostre rappresentazioni.

Lo sgomento, l’annichilimento che l’irrompere e l’affermarsi di questa nuova consapevolezza porta con se è l’esperienza che il termine nichilismo vuole nominare, che già trova significativa espressione agli albori dell’Ottocento in una lettera alla fidanzata di Heinrich von Kleist (1777-1811) datata 22 marzo 1801, nella quale descrive lo stato d’animo in cui l’aveva gettato la lettura della Critica della ragione pura di Kant: «Da quando mi si è affacciata questa convinzione, vale a dire che non è possibile conquistare verità alcuna, non ho più toccato libro. Mi sono aggirato indolente per la mia stanza, mi sono seduto davanti alla finestra, sono uscito all’aperto, e un’intima inquietudine mi ha spinto a frequentare piccoli e grandi caffè, teatri e concerti per distrarmi, sino al punto di commettere, per stordirmi, una sciocchezza che sarà meglio ti raccontiCarl; e anche così l’ossessivo pensiero che dominava la mia anima con ardente angoscia in quel tumulto esteriore era sempre questo: il tuo unico, il tuo più alto scopo è crollato. [...] Ahimè, essere senza una meta verso la quale la nostra mente possa procedere gaia e operosa è lo stato più doloroso che esista: e in quello stato mi trovavo». È lo stesso Nietzsche che nella terza delle Considerazioni inattuali cita Kleist ad esempio del «disperare della verità», essendo questo il pericolo che «accompagna ogni pensatore che prenda come punto di partenza la filosofia di Kant», come pure nel caso di Schopenhauer, al quale Nietzsche è interessato. Ovviamente Nietzsche non si riferisce solo ai lettori di Kant, ma a tutti coloro che debbano esperire lo stato in cui si trova l’uomo rivelato dalla filosofia kantiana. Come abbiamo detto, ciò non era nelle intenzioni di Kant, né, altrettanto, la rivoluzione copernicana di cui parla ha come unico responsabile se stesso. Kant porta infatti a compi-mento o, quanto meno, a definitiva coscienza le speculazioni dei suoi predecessori, almeno a partire di Cartesio; e le implicazioni pessimistico-nichilistiche avranno un effettivo sviluppo con i suoi successori, tra i quali spiccano Schopenhauer e Nietzsche. Invero, già tra i primi scritti di Nietzsche non pubblicati e di poco precedenti la Nascita della tragedia, si trovano non poche attenzioni in merito, anzi in nuce vi si trovano quasi tutti i temi e gli orientamenti che caratterizzeranno la fase della maturità. Su tutti spicca un testo che esplicitamente e direttamente tratta il tema della verità; il titolo suona: Su verità e menzogna in senso extra-morale. Riprendendo la lezione kantiano-schopenhaueriana prende atto che «noi crediamo di sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di neve e di fiori, eppure non possediamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie», all’«enigmatico x della cosa in sé»2, che, comunque, o come stimolo nervoso o come immagine, una volta che diventi possesso del soggetto conoscente, con ciò, viene perduto. Infatti, che le categorie dell’intelletto siano dieci come voleva Kant o si riducano ad una con Schopenhauer, che siano immutabili ed universali o abbiano una genesi storica, comunque ciò che conta è che ogni conoscenza in quanto conoscenza di un soggetto è, come tale, soggettiva: non vi è nulla che permetta di uscire da questo quasi trabocchetto linguistico a restituire l’oggettività del mondo che percepiamo. Ciò che vera-mente è, è destinato a rimanerci celato perché qualsiasi accesso a ciò che è è sempre viziato dal modo, dalle capacità del nostro percepire. La verità rimane con ciò per sempre occlusa, non si può con ciò che non credere «più a nulla»3.

Le conoscenze di cui pure l’uomo dispone non sono un patrimonio che costituiscono la verità bensì pertanto un mezzo per la propria conservazione. Ciò che quindi sono chiamate verità altro non sono che illusioni, parvenze create dall’uomo che costituiscono le sue proprie condizioni di esistenza. Nietzsche arriva già ora a conclusioni che si ripresenteranno negli anni della maturità con rinnovata consapevolezza ed espresse dalle celebri parole: «La verità è la specie di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere».

Il crollare delle fede nella verità porta con sé tutto l’edificio delle conoscenze tradizionali nelle quali trovavano fondamento. Se infatti i concetti e qualsiasi rappresentazione sono illusioni, qualsiasi cosa da essi consegua sarà anch’essa illusione ed un ulteriore errore. Qualsiasi conoscenza logico-concettuale, sia essa filosofica o scientifica, viene delegittimata da ogni pretesa assoluta e svalutata a semplice accomodamento efficace alla vita umana.

Questa è la consapevolezza che si impone nel secolo di Nietzsche, e Nietzsche interpreta questo accadimento come l’esaurirsi delle possibilità e dei tentativi dell’atteggiamento razionalistico, che ora deve arrendersi all’evidenza delle proprie impossibilità. La fede nelle verità era infatti «quell’incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere». «Peraltro la scienza, spronata dalla sua robusta illusione, corre senza sosta fino ai suoi limiti, dove l’ottimismo insito nell’essenza della logica naufraga. Infatti la circonferenza che chiude il cerchio della scienza ha infiniti punti, e mentre non si può ancora prevedere come sarà mai possibile misurare interamente il cerchio, l’uomo nobile e dotato giunge a toccare inevitabilmente, ancor prima di giungere a metà della sua esistenza, tali punti di confine della circonferenza, dove guarda fissamente l’inesplicabile».

 

 

DUE TRAGEDIE

 

L’esperienza nella quale si precipita una volta che irrompa tale consapevolezza è tragica, perché disperata e perché richiama a ciò che già dovette vivere un popolo più di duemila anni or sono, il popolo greco, in particolare nell’età dei suoi tragediografi Eschilo (525-456 a.C.) e Sofocle (497-406 a.C.). Questa esperienza richiama quell’altra, ma non è la stessa. Quella attuale porta infatti con sé il terrificante spaesamento che consegue dal trovarsi in un mondo totalmente altro da quello finora pensato e al quale si pensava di appartenere. E non si tratta di una piccola perdita, perché il vecchio mondo su cui si riponeva tutta la fiducia era tutto ciò su cui faceva affidamento. Il mondo vero, razionale, della verità, era infatti ciò su cui si faceva affidamento, era ciò in cui si confidava contro l’esperienza tragica che già il popolo greco compiutamente sperimentò: «Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza». L’esperienza è ora massimamente tragica perché si impone dopo la perdita della fiducia, dopo il più atterrante disilludersi.

L’esperienza tragica è custodita nelle poche parole di una leggenda greca. «L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nelle foreste il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re do-mandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, esse-re niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto’». È dall’evidenza suprema che questa saggezza attinge: l’evidenza del divenire, del comparire e scomparire di tutte le cose nel nulla; e questa evidenza tanto più s’impone ora che viene meno la fiducia nella stabilità dell’essere come fondamento, dacché qualsiasi parvenza di essere altro non è che una costruzione del soggetto “conoscente”.

La categoria di essere e tutte le categorie che costituiscono il patrimonio razionalistico dell’uomo appaiono svuotate della loro realtà, della loro corrispondenza alla realtà, per rimanere soltanto mezzi per lo sviluppo di una determinata forma di esistenza. Esse soltanto nascondono il carattere reale del mondo; «la ragione è la causa del nostro falsificare la testimonianza dei sensi. In quanto i sensi ci mostrano il divenire, lo scorrere, il cambiamento, non mentono». L’essere è dunque «una vuota finzione» e con esse tutta la vita che da esse si sviluppa, meglio: il modo in cui la vita era stata pensata a partire da esso.

Se non vi è più alcuna verità, che possa orientare e se ogni sforzo umano è destinato a divenire nulla, le conclusioni non possono essere che le seguenti: «Tutto è indifferente, nulla vale la pena, il sapere strangola».

È nel pensiero poetante di Leopardi (1798-1837) che quell’esperienza trova espressione in forme impareggiabili, che la saggezza del Sileno trova compimento in versi e in prosa.

 

                                   Sola nel mondo eterna, a cui si volve

                                   Ogni creata cosa,

                                   In te, morte, si posa

                                   Nostra ignuda natura4

 

La visione filosofica che agita e precipita in quest’esperienza è semplice e non lascia scampo. «Le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno. [...] Per tanto i diversi modi di essere della materia, i quali si veggono in quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e passeggeri; ma niun segno di caducità di mortalità si scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella sia cominciata, che ad essere le bisognasse o pur le bisogne alcuna causa o forza fuori di se.»5

Ecco che allora «pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturiscono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocchè niuna cosa è felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patisco-no veramente per l’altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte»6.

È inevitabile a questo punto puntare il dito su almeno due millenni di errori: «Dunque s’ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco meno che tutti i filosofi antichi e moderni». «Quelle verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli uomini», debbono «essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. Il che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo. Io non ignoro che l’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bisogna filosofare»7.

Queste, come detto, sono conclusioni molto simili alle quali giunge Nietzsche ereditando il patrimonio filosofico kantiano e, soprattutto, schopenhaueriano. «Se non avessimo approvato le arti ed escogitato questa specie di culto del non vero, la cognizione dell’universale menzogna e falsità che ci è oggi fornita dalla scienza – il riconoscimento dell’illusione e dell’errore come condizioni dell’esistenza conoscitiva e sensibile – non sarebbe affatto sopportabile. Le conseguenze dell’onestà sarebbero la nausea e il suicidio».

«L’infinita vanità del tutto» è l’abisso al quale conduce la speculazione filosofica dell’occidente: è contro «la potenza del niente»8 che ormai l’uomo deve fare i conti.

 

NOTE

 

1. Nella Prefazione a Richard Wagner Nietzsche parla di Wagner come quel «sublime combattente che mi precede su questa strada».

 

2. La posizione nietzscheana andrà incontro a vari sviluppi e declinazioni, attraverso i frammenti che precedono la pubblicazione della Gaia scienza, nei quali l’«enigmatico x della cosa in sé» è ormai escluso dalla sua prospettiva filosofica: «la vera essenza delle cose è un’invenzione dell’essere che ha rappresentazioni, senza questa invenzione esso non è capace di avere rappresentazioni»; fino a quando raccontando la «Storia di un errore», per il quale «il “mondo vero” finì per diventare una favola», verrà formulata nelle parole: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente?... Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!» (Crepuscolo degli idoli).

 

3. Significativo a riguardo è quanto scrive Nietzsche per la Prefazione del 1886 al secondo volume di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878-1880): «Quando poi, nella terza Considerazione inattuale, espressi la mia venerazione per il mio primo e unico educatore, per il grande Arthur Schopenhauer... mi trovavo, quanto alla mia persona, già nel bel mezzo della scepsi e della dissoluzione moralistica, vale a dire impegnato altrettanto nella critica che nell’approfondimento di ogni pessimismo preesistente – e già non credevo “più a nulla”, come dice il popolo, neanche aSchopenhauer: appunto in quel tempo nacque un piccolo scritto, poi tenuto segreto, “Sulla verità e la menzogna in senso extramorale”».

 

4. Leopardi, Operette morali, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie.

 

5. Ivi, Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco.

 

6. Ivi, Cantico del gallo silvestre.

 

7. Ivi, Dialogo di timandro e di Eleandro.

 

8. Jünger, Oltre la linea, in Jünger-Heidegger, Oltre la linea.