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Giambattista Vico

(1668-1744)

 



DE ANTIQUISSIMA

ITALORUM SAPIENTIA

 

EX

LINGUAE LATINAE ORIGINIBUS

ERUENDA

LIBRI TRES

 

(1710)

 

 

 

PROEMIO

 

Nel meditare sulle origini della lingua latina, ho notato che quelle di alcune parole sono tanto dotte da sembrare derivate non dall'uso comune del popolo, ma da qualche dottrina riposta. E nulla davvero impedisce che una certa lingua sia ricca di locuzioni filosofiche, se presso quel popolo la filosofia è molto coltivata. […]

 

CAPITOLO I

 

I

 

IL VERO E IL FATTO

 

In latino verum e factum hanno relazione reciproca, ovvero, nel linguaggio corrente delle Scuole, si convertono. Intelligere è lo stesso che leggere perfettamente, conoscere apertamente. Si diceva cogitare nel senso in cui noi in volgare diciamo: «pensare» e «andar raccogliendo». Ratio significava il calcolo aritmetico, e la dote propria dell’uomo, per cui si differenzia dagli animali bruti e li supera; descrivevano comunemente l’uomo come un animale «partecipe di ragione», non padrone completo di essa. D’altronde, come le parole sono simboli e note delle idee, così le idee sono simboli e note delle cose. Dunque, come legere è l’atto di chi raccoglie gli elementi della scrittura da cui si compongono le parole, così intelligere è il raccogliere tutti gli elementi della cosa atti ad esprimere un’idea perfettissima.

Da qui si può congetturare che gli antichi sapienti dell’Italia convenissero, circa la verità, nelle seguenti proposizioni: il vero si identifica col fatto; di conseguenza il primo vero è in Dio, perché Dio è il primo facitore; codesto primo vero è infinito, in quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo, poiché rappresenta a Dio, in quanto li contiene, gli elementi estrinseci ed intrinseci delle cose. Sapere (scire) significa comporre gli elementi delle cose: quindi alla mente umana è proprio il pensiero (cogitatio), alla divina l’intelligenza (intelligentia) Dio infatti raccoglie (legit) tutti gli elementi delle cose, estrinseci ed intrinseci, in quanto li contiene e dispone; invece la mente umana, in quanto limitata, e in quanto sono fuori di lei tutte le altre cose che non siano essa stessa, può soltanto andare ad accozzare gli elementi esterni delle cose, senza mai collegarli tutti. Pertanto è partecipe della ragione, non padrona.

Per illustrare tutto questo con una similitudine: il vero divino è una solida immagine delle cose, una specie di plastico; quello umano è un monogramma, un’immagine piana, una specie di dipinto. Pertanto, mentre il vero divino è quello che Dio dispone e genera nel momento stesso in cui lo conosce, il vero umano è quello che l'uomo compone e fa nel momento stesso in cui lo apprende. E così la scienza è la conoscenza del genere o modo in cui la cosa si fa; per mezzo di essa la mente, al tempo stesso in cui viene a conoscere quel modo in cui compone gli elementi, fa la cosa. Solida per Dio, che comprende tutto; piana per l'uomo, che comprende gli elementi estrinseci.

Per conciliare più agevolmente queste considerazioni con la nostra religione, si deve sapere che per gli antichi filosofi dell’Italia il vero e il fatto si convertivano, poiché pensavano che il mondo fosse eterno; inoltre i filosofi gentili venerarono un Dio che sempre avrebbe operato all’esterno, cosa che la nostra teologia nega.

Perciò nella nostra religione, per la quale professiamo che il mondo fu creato nel tempo dal nulla, occorre qui una distinzione: il vero creato si converte col fatto (factum) il vero increato col generato (genitum). Le Sacre Scritture, con eleganza veramente divina, chiamarono «Verbo» (Verbum) la sapienza di Dio, che contiene in sé le idee di tutte le cose, e quindi gli elementi di tutte le idee. Nel Verbo infatti si identificano il vero e la comprensione di tutti gli elementi che compongono la totalità dell’universo; se volesse potrebbe costituire infiniti mondi; e giacché nella sua divina onnipotenza conosce tutto ciò, esiste un Verbo reale esattissimo, che essendo sin dall’eternità conosciuto dal Padre, dall’eternità è altresì generato da lui.

 

II

 

ORIGINE E VERITÀ DELLE SCIENZE

 

Date le suddette proposizioni degli antichi sapienti dell’Italia intorno al vero, e data la distinzione che la nostra religione pone tra il generato e il fatto, abbiamo questo principio: poiché soltanto in Dio il vero è completo, dobbiamo dichiarare assolutamente vero ciò che Dio ci ha rivelato; e non cercare il genere e il modo per cui è vero, perché ci è assolutamente impossibile comprenderlo. Muovendo di lì ci è possibile risalire all’origine delle scienze umane, e avere alla fine una norma per riconoscere quelle vere. Dio sa tutto, poiché contiene in sé gli elementi con i quali tutto compone; l'uomo invece si sforza di conoscerli attraverso la divisione. […]

[…] Poiché in effetti Dio è tutte le cose «eminentemente» (come dicono i teologi cristiani), e poiché la perenne generazione e corruzione degli enti non lo mutano in nulla, come non lo aumentano né diminuiscono di nulla, gli enti finiti e creati sono disposizioni dell'ente infinito ed eterno. Dunque Dio solo è vero ente, le altre cose sono piuttosto dell'ente. Per questo Platone, quando usa la parola «ente» in senso assoluto, intende il sommo nume. Ma che bisogno c'è della testimonianza di Platone, quando Dio stesso ci si e autodefinito: colui che sono, colui che è, come a dire che tutte le singole cose rispetto a lui non sono? E i nostri asceti, o metafisici cristiani, vanno predicando che noi rispetto a Dio, per grande che sia la nostra importanza, e di dovunque essa venga, siamo nulla. […]

L'uomo pertanto, quando si accinge a investigare la natura della cose, si accorge infine di non poterla in alcun modo raggiungere non avendo in sé gli elementi da cui sono costituite le cose, e capisce che ciò dipende dai limiti della sua mente (giacché tutte le cose sono fuori di lui); utilizza allora questo difetto della mente per i suoi usi, e per mezzo della cosiddetta astrazione immagina due cose: il punto, che può essere disegnato, e l'uno, che può essere moltiplicato. Sono due entità fittizie: il punto infatti, se disegnato, non e più punto; e l'uno, se moltiplicato, non è più uno. Inoltre si arroga il diritto di procedere da tali finzioni all'infinito, permettendosi di condurre linee all'infinito e di moltiplicare l'uno indefinitamente.

Si crea cosi un mondo di forme a di numeri, che abbraccerebbe dentro di sé l'universo. E allungando, accorciando, componendo le linee, sommando, diminuendo o computando i numeri, compie infinite operazioni, come chi conosca dentro di sé verità infinite. […]

Quindi, non potendo il fisico definire le case in base al vero, ossia attribuire a ciascuna cosa la sua natura e veramente farla (questo è possibile a Dio, impossibile all'uomo), definisce i nomi e ad imitazione di Dio, senza alcun sostrato e come dal nulla, crea, quasi fossero cose, il punto, la linea, la superficie, intendendo per punto qualcosa che non ha parti, per linea il prolungamento del punto (ossia la lunghezza senza larghezza ne profondità), e per superficie, l'incontro di due linee in un punto solo (ossia larghezza e lunghezza senza profondità). A questo modo, essendogli negato il possesso degli elementi dai quali le cose ricavano certamente l'esistenza, si creano elementi di parole, da cui scaturiscono idee incontrovertibili. Lo videro bene i sapienti autori latini, giacché sappiamo che i romani parlavano indifferentemente di questioni di nomi e di definizioni: pensavano di cercare una definizione quando cercavano che cosa fosse ciò che veniva comunemente suscitato nella mente umana da una parole pronunciata.

Di qui si vede che alla scienza umana è toccata la stessa sorte che alla chimica. Quest'ultima, mentre si affaticava in ricerche del tutto inutili e senza sbocco, senza esserselo proposto ha data alla luce un'arte operativa utilissima al genere umano, la spargirica o arte farmaceutica; allo stesso modo la curiosità umana, mentre inseguiva il vero negatole dalla natura, ha generato due scienze utilissime alla società umana, l'aritmetica a la geometria, e queste a loro volta hanno generato la meccanica, madre di tutte le arti necessarie al genere umano.

La scienza umana è nata dunque da un difetto della nostra mente, ossia dalla sua estrema limitatezza, per cui è fuori da tutte le cose, non contiene le cose che aspira a conoscere, e, poiché non le contiene, non traduce in effetto le cose vere che si sforza di raggiungere. Ma scienze certissime sono quelle che espiano il vizio d'origine, e per mezzo delle operazioni diventano simili alla scienza divina, in quanto vero e fatto si convertono.

Da quanto si è finora dissertato, si può senz'altro concludere che il criterio e la regola del vero consiste nell'averlo fatto. Dunque l'idea chiara e distinta della nostra mente, nonché di tutti gli altri veri, non pub essere criterio nemmeno della mente: poiché la mente, quando si conosce, non si fa; e poiché non si fa, non conosce genere o modo del suo conoscersi. Ora, essendo la scienza umana fondata sull'astrazione, le scienze sono tanto meno certe, quanto più si immergono nella corposità della materia così la meccanica è meno certa della geometria e dell'aritmetica, poiché si occupa del moto, ma con l'ausilio delle macchine; la fisica è meno certa della meccanica, poiché la meccanica studia il moto esterno delle circonferenze, la fisica il moto interno dei centri; la morale è meno certa della fisica, poiché la fisica studia i moti interni dei corpi, pertinenti alla natura, che è certa, mentre la morale scruta i moti dell'animo, che sono interni, e per lo più scaturiscono dalla libidine, che è infinita. Perciò in fisica vengono approvate quelle teorie cui corrisponde per similitudine qualche nostra operazione; e raggiungono la massima celebrità e consenso universale quelle idee sulla natura che siano confortate da esperimenti mediante i quali noi facciamo qualcosa di simile alla natura. […]