LA VERITA' FILOSOFICA NELLA SUA
ILLUSORIA APPARENZA DI VERITA' ASSOLUTAMENTE CERTA

tratto da Concetti fondamentali della metafisica (1929-1930)
di Martin Heidegger 

 

 

La filosofia è qualcosa di ultimo e di estremo. Ma questo è proprio ciò che tutti devono avere e poter possedere saldamente. E' per tutti chiaro che, poiché questa è la cosa suprema, deve essere anche la più sicura. Deve essere quanto vi è di più certo. Ciò che tutti possono comprendere senza sforzo alcuno, deve avere il carattere di suprema certezza. E, guarda caso, ciò che è comunque accessibile a tutti come 2 x 2 = 4, lo conosciamo nella sua formulazione estrema come conoscenza matematica; come altresì tutti sanno, questa è anche la conoscenza suprema, la più rigorosa e certa. E così avremmo ricavato da ciò che il filosofare è, e deve essere, l'idea e il metro di paragone della verità filosofica. Come se ciò non bastasse, sappiamo che Platone, al quale certo non vorremmo negare il carisma del filosofo, fece scrivere sopra l'ingresso della sua Accademia: nessuno vi abbia accesso che non sia versato nella geometria e nella conoscenza matematica. E qual era l'intenzione di Cartesio, che determinò l'atteggiamento fondamentale della filosofia moderna, se non quella di procurare alla verità filosofica il carattere di matematica, e sottrarre così l'umanità al dubbio e alla mancanza di chiarezza? Di Leibniz ci è stato tramandato il detto: senza la matematica non si può penetrare nel fondo della metafisica. Questa è dunque la conferma più profonda e completa di ciò che per ognuno vale come verità assoluta in filosofia.
Ma se è chiaro come il sole che la verità filosofica è verità assolutamente certa, perché la filosofia non riesce mai a portare a compimento questa fatica? Al contrario, nell'intera storia della filosofia, non abbiamo forse modo di vedere, proprio in relazione a ciò, una catastrofe dopo l'altra? Pensatori come Aristotele, Cartesio, Leibniz e Hegel devono sopportare di venir confutati da un dottorando. Queste catastrofi sono così catastrofiche che gli interessati non se ne accorgono neppure.
Non dobbiamo forse concludere, tenuto conto dell'esperienza fatta finora sul destino della filosofia come scienza assoluta, che questo obiettivo deve venire definitivamente abbandonato?

A questa deduzione si potrebbe obiettare che, sebbene due millenni e mezzo di storia della filosofia occidentale rappresentino un considerevole periodo di tempo, esso non è però sufficiente perché si possa trarre per tutto il tempo a venire una tale conclusione [...]; la possibilità che la filosofia giunga un giorno a tale obiettivo, deve dunque fondamentalmente rimanere aperta.

Si deve rispondere: non neghiamo alla filosofia il carattere di scienza assoluta, perché fino ad ora non l'ha ancora raggiunto, bensì perché questa idea dell'essenza filosofica viene ascritta alla filosofia sulla base di un'ambiguità, e perché questa idea mina nel più profondo l'essenza stessa della filosofia.

Cosa significa porre innanzi alla filosofia la conoscenza matematica come suo criterio di paragone per la conoscenza come suo ideale di verità? Niente di meno che porre la conoscenza non-vincolante e più vuota quanto al suo contenuto, come misura per quella più vincolante e più piena, cioè rivolta al tutto.

Dunque la possibilità che la filosofia, un giorno, riesca a raggiungere il suo presunto obiettivo di divenire scienza assoluta, non deve venire lasciata aperta, perché questa possibilità non è affatto una possibilità della filosofia.