Moritz Schlick

(1882-1936)

 

 

Teoria generale della conoscenza

 

[Allgemeine Erkenntnislehre]

 

(1925)

 

 

3. Il conoscere nella scienza

 

Per conoscere si richiede soltanto che di due fenomeni, in precedenza separati, l'uno sia ricondotto all'altro. Non occorre quindi (come sovente si ritiene) che ciò che deve servire di spiegazione sia meglio noto di ciò che deve essere spiegato, né quindi occorre pensare che l'uomo abbia ottenuto conoscenza solo laddove sia stato ri-trovato, per così dire, il familiare nel non-familiare. Ciò si può mostrare facilmente con esempi tratti dalla ricerca scientifica. Quando, ad esempio, la fisica moderna riesce a ridurre delle leggi meccaniche a leggi elettromagnetiche questo significa che si è [30] ottenuta una spiegazione, un progresso della conoscenza, né più né meno che se fosse riuscito il procedimento inverso – prima così spesso tentato – ossia la spiegazione meccanica dell'elettricità; e questo benché le leggi della meccanica siano note da molto più tempo e lo spirito umano abbia molta più confidenza con esse che non con le leggi dell'elettricità. E ancora, quando viene scoperta una nuova lingua sulla terra, essa, naturalmente può benissimo servire da anello di congiunzione e come base di spiegazione per conoscere i fenomeni delle lingue a noi più vicine e più note.

Di frequente si incontra anche la formulazione secondo cui il conoscere sarebbe «riduzione di ciò che non è noto a ciò che è noto». Ma questo è un modo assurdo di esprimersi. Ciò che deve essere spiegato deve sempre esserci noto – come potremmo altrimenti voler spiegare qualcosa se di essa non sapessimo nulla? Si commette qui l'errore di confondere il (co)noscere [kennen] con il conoscere [erkennen], un errore che, come vedremo in seguito, in molti casi può avere le peggiori conseguenze per la filosofia. Ma anche se, correggendo qui questo errore, si sostituisse l'espressione “ciò che non è noto” con “ciò che non è conosciuto” la formula non diventa ancora corretta. E questo perché il fattore di spiegazione al quale viene ridotto ciò che non è conosciuto non è necessariamente deve essere qualcosa di noto già da prima; può essere anche qualcosa di nuovo, qualcosa che viene assunto espressamente per questa particolare conoscenza. Ricorre questo caso ogni volta che per la spiegazione di un certo genere di fatti viene avanzato un concetto nuovo, o un'ipotesi nuova, che deve allora ovviamente aver già ricevuto una conferma su altre basi prima che la spiegazione possa considerarsi riuscita. Ma dove una nuova ipotesi ben concepita rende per la prima volta intelligibile un qualche tipo di fatti, la conoscenza che si ottiene consiste nella riduzione di qualcosa di noto a qualcosa di non precedentemente noto, quindi proprio l'opposto di quanto asseriva la formula citata. È ovvio, inoltre, che il fattore di spiegazione che rende possibile la conoscenza non occorre che sia esso stesso qualcosa di conosciuto; può anche essere qualcosa di ultimo, qualcosa che non siamo ancora in grado di ridurre ad altri fattori. Per essere giusta la formula menzionata deve quindi in ogni caso essere generalizzata fino a convertirsi nella proposizione, meno specifica: la conoscenza è riduzione di una cosa ad un'altra.

 

[…]

 

 

[31] Ogni graduale avanzamento nella comprensione avviene in questo modo, che dapprima in una cosa ne viene ri-trovata un'altra, e in questa di nuovo un'altra, e così di seguito. Ma fino a che punto si va avanti così e qual è l'esito dell'intero processo? Questo almeno è chiaro: procedendo nel modo descritto il numero dei fenomeni che vengono spiegati mediante uno stesso ed unico principio diventa sempre più grande, e quindi il numero dei principi necessari alla spiegazione della totalità dei fenomeni diventa [31] sempre più piccolo. Dal momento infatti che sempre una cosa viene ridotta ad un'altra, l'insieme delle cose non ancora ridotte – vale a dire l'insieme delle cose che servono di spiegazione e che non sono state ancora spiegate – diminuisce costantemente. Di conseguenza, il numero dei principi di spiegazione impiegati può servire direttamente come misura del livello di conoscenza raggiunto, per cui la conoscenza del livello più alto sarà evidentemente quella a cui si arriva con un minimum di principi di spiegazione non suscettibili essi stessi di una spiegazione. Rendere questo minimum il più piccolo possibile è quindi il compito ultimo del conoscere.

 

 

M. Schlick, Teoria generale della conoscenza (1925), tr. it. di E. Palombi, Franco Angeli, Milano (1986), pp. 29-30 e pp. 31-32