Il positivismo ante litteram 

dell'Umanesimo e del Rinascimento

 

A partire da Descartes e fino ai giorni nostri si è creduto con crescente trasparenza che ci si fosse avviati in un’età nuova, caratterizzata dal libero utilizzo della ragione, ovvero da un utilizzo della ragione che non la vincolasse a qualcosa a lei estraneo. Con la tenacia derivata da una accrescentesi lucidità si prese ad organizzarsi e a condurvi la battaglia illuministica contro i pregiudizi.

Lo slancio che sempre più si stava alimentando1 lo si è creduto il frutto di un siffatto uso e i risultati conseguiti si sono creduti come il germoglio di quell’innovativo esercizio della ragione, codificato nelle forme esemplari di un metodo scientifico e di un metodo geometrico.

La considerazione critica del lavoro di Cartesio e Galilei sembra suggerire però la necessità di considerare l’età moderna non tanto come un nuovo inizio, ma come la sistemazione e sistematizzazione di un processo iniziato molto addietro. È opportuno qui rilevare brevemente come una certa polemica contro una tradizione che si prodigava sulla ripetizione di vuoti e sclerotizzati filosofemi circolasse vivacemente nel corso di tutto il Cinquecento e non mancasse nel Quattrocento. I personaggi che la animano sono i più disparati e ne ricorderemo qui solo alcuni2.

Ludovico Vives (1492-1540), umanista, filosofo e pedagogo spagnolo, nell’opera De causis corruptarum artium, parte della sua summa enciclopedica De disciplinis libri XX (1531), afferma: «melius agricolae et fabri norunt quam ipsi tanti philosophi». Questo perché

 

«arrabbiati contro la natura, che essi ignoravano, i dialettici se ne sono costruita un’altra: cioè quella delle formalità, delle ecceità, delle relazioni, delle idee platoniche e di altre mostruosità che gli stessi che le hanno inventate non possono capire. A tutte queste cose essi attribuiscono un nome pieno di dignità e le chiamano metafisica. Se qualcuno ha un’intelligenza del tutto ignara della natura, o che ha orrore di essa, una mente che è invece propensa a cose astruse e a sogni pazzeschi, dicono che costui possiede un’intelligenza metafisica».

 

È chiaro che già qui sono contenuti i germi della polemica degli scienziati della prima età moderna, così come della battaglia illuministica, e di nuovo del positivismo e del neopositivismo. Tutte manifestazioni di uno stesso errore prospettico. Il credere ciò che la mancanza di concretezza, di evidenza, di sensatezza o di fattualità sia qualcosa in sé, misconoscendo che tutti questi parametri sono tali all’interno di un’intera visione del mondo. Questo non implica condursi al relativismo del Novecento, ma soltanto vedere che tutto ciò contro cui si punta il dito è pure evidente, concreto, fattuale, sensato, ma in un grado minore rispetto al risultato ulteriore che si crede di aver raggiunto.

Dal pregiudizio non ci si libera in virtù di un atto magico, di un metodo o di un atto di volontà, ma sviluppando le stesse categorie che poi verranno riconosciute come informatrici del pregiudizio.

Georg Agricola (1490-1555), mineralogista tedesco, nella Prefazione al De re metallica (1556), che rimane per due secoli l’opera fondamentale di opera mineraria, scrive:

 

«Io non ho scritto cosa niuna la quale non habbia veduta o letta o con accuratissima diligenza esaminata quando che da altrui mi sia stata raccontata», in polemica con gli alchimisti, «tutti scuri», che designano le cose con nomi «istrani et trovati di lor capo et chi l’uno et chi l’altro se n’è finto d’una stessa cosa».

 

E sembra fargli eco un ceramista francese, Bernard Palissy (1510-1589), nei suoi Discours admirables (1580):

 

«Mediante la pratica io provo esser false in più punti le teorie di molti filosofi, anche i più antichi e rinomati. In meno di due ore ciascuno potrà rendersene conto purché si prenda la pena di venire nel mio laboratorio. In esso si possono vedere cose mirabili (messe a prova e testimonianza nei miei scritti), collocate in ordine e con delle scritture al di sotto affinché ciascuno possa istruirsi da solo. Ti posso assicurare, o lettore, che, sui fatti contenuti in questo libro, imparerai più filosofia naturale di quanta non ne impareresti in cinquant’anni leggendo le teorie e le opinioni dei filosofi antichi»3.

 

Fatti, non parole, sembra suggerire con efficacia questo discorso positivista ante litteram. E solo un anno dopo, la sua precisa formulazione si troverà in tutt’altro ambito: Robert Norman, un marinaio inglese, che, dopo circa venti anni trascorsi in mare, si era dedicato alla costruzione e al commercio delle bussole, in un volumetto sul magnetismo e sulla inclinazione dell’ago magnetico, The Newe Attractive, Containing a Short Discourse of the Magnes (1581), sintetizza quello che ormai appare come un pensiero ricorrente: «not regarding the words, but the matter».

Ma già nel Quattrocento, ancor prima di questo fermento di nuove arti, opere e prospettive, che si sentivano nuove rispetto a una certa parte della cultura tradizionale, i motivi dominanti il Cinquecento e i padri dell’età moderna, Galilei e Descartes, si ritrovano in Leonardo da Vinci (1452-1519), pittore, ingegnere (progettatore e costruttore di macchine), letterato e filosofo; segnatamente troviamo: l’idea di un necessario congiungimento fra la matematica e l’esperienza; una polemica fermissima contro le pretese dell’alchimia; un’invettiva contro «i recitatori e i trombetti delle altrui opere»; una generale protesta contro il richiamo alle autorità che è propria di chi usa la memoria invece che l’ingegno. In termini affermativi, quel richiamo all’uso della propria ragione, che Schopenhauer attribuisce a Descartes, e che è disseminato in più parti nell’opera di Galilei:

 

«E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo»4.

 

Galileo è il punto d’arrivo e la sintesi dei secoli a lui immediatamente precedenti, che si sollevano con gli strumenti intellettuali di cui dispongono contro le sclerotizzazioni e le atrofie dello spirito, ora massimamente rappresentati da filosofi aristotelici e tradizionalisti di ogni sorta. Così come in precedenza, qualche secolo più in là, era stato l’aristotelismo ad essere il simbolo della ragione e del suo libero utilizzo contro l’oscurantismo dogmatico della fede nei secoli bui del Medioevo cristiano.

 

Tratto da Trilogia sul fondamento

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1 Anche sul piano sociale, in termini di fiducia e di nuova attenzione per la ora possibile soddisfazione di sé in questo mondo. Cfr. McMahon, Storia della felicità. Dall’antichità a oggi, tr. it. di Cristofori, Garzanti, Milano 2007, pp. 165-302.

2 Per una considerazione più ampia di questo aspetto si vedano i lavori di Paolo Rossi, da cui traggo, dove non altrimenti indicato, i riferimenti: I filosofi e le macchine 1400-1700, Feltrinelli, Milano 2007 e La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Roma-Bari 2005.

3 Similmente si esprime Harvey nella sua Esercitazione anatomica, p. 6: «io dichiaro apertamente di imparare e di insegnare l’anatomia non dai libri, ma dalle dissezioni, non dai precetti dei filosofi ma dall’opera della natura».

4 Galilei, Diaologo dei massimi sistemi, p. 151. Del resto, già il padre di Galileo, Vincenzo Galilei, aveva scritto nel suo Dialogo della musica antica e della moderna: «Mi pare che faccino cosa ridicola quelli che per prova di qual si sia conclusione loro, vogliono che si creda senz’altro alla semplice autorità, senza addurre di esse ragioni che valide siano... Voglio... che mi concediate essermi lecito alla libera interrogarvi, e rispondervi senz’alcuna sorte d’adulazione, come veramente conviene tra quelli che cercano la verità delle cose» (in Drake, Galileo, tr. it. di Colombo, il Mulino, Bologna 1998).