L'ETÀ MODERNA

 

XIII-XX

 

 

Proponiamo qui una diversa comprensione e conseguente nuova periodizzazione di quello snodo fondamentale e controverso che è il passaggio dal Medioevo all'Età moderna. Al contrario di quanto comunemente ritenuto, non accade né che la scienza venga determinata dal metodo scientifico né, come spiegheremo, che l'Umanesimo e il Rinascimento sorgano in contrapposizione a ciò che viene oggi viene chiamato Medioevo: ne sono semmai la continuazione e lo sviluppo1. Così come infatti Galileo rappresenta una tappa assai significativa del progresso scientifico, ma non un punto d'inizio, così il '400 e il '500 mostrano una fioritura di una cultura che affonda le sue radici culturali nel '200. È a questo secolo che dobbiamo far risalire la prima fase dell'Età moderna. Come sottolineato da Burdach infatti:

 

«l'immagine della nuova vita, della Rinascita, domina già all'epoca di Bonaventura, di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, del Rienzo, mantiene la sua efficacia nel XV secolo, e nel XVI ne viene fissata la permanente validità. […] quasi tutti gli scrittori italiani contemporanei, fosser poeti, dotti, artisti, che espressero in considerazioni retrospettive il loro parere sul mutamento e sul nuovo slancio preso dalla cultura italiana, delle arti e delle scienze italiane, concepirono l'età di Dante e di Giotto come età del mutamento, del grande inizio.»

 

Quel che avviene in questo secolo è l'emancipazione del pensiero dalla rivelazione e il passaggio dalla teologia alla filosofia. Non perché vi sia una laicizzazione del pensiero o perché l'interesse da Dio inizi misteriosamente a concentrarsi sull'uomo e sulla natura, bensì perché si ha la convinzione che il ragionamento intorno al creato sia l'accesso alle verità a portata d'uomo. Dello stesso avviso è Cassirer, che scrive, riferendosi alla filosofia del '400:

 

«Proprio il carattere scolastico, che questa filosofia sembra ancora conservare ovunque, ha, come conseguenza, che non si possa qui tirare in nessun punto una linea chiara e netta di confine tra il pensiero filosofico e quello religioso. La filosofia del quattrocento è e rimane, e questo proprio nelle sue opere più significative e profonde, essenzialmente teologica.»2

 

Difatti è innegabile la continuità che vi è tra la filosofica dei secoli precedenti e, per esempio, quella di Pico della Mirandola o di Cusano. L'errore di Cassirer consiste nel chiamare questa filosofia «teologica» perché tratta di Dio, libertà e immortalità. Se fosse così dovremmo continuare a individuare la scolastica in Cartesio e Leibniz, fino a Kant. Il discrimine fondamentale è dato invece dal progressivo abbandono al testo sacro come riferimento alla speculazione e alle indagini3. In questo senso sono esempi illustri filosofi come Averroè, Ockham e Cusano. Cartesio e Leibniz sono addirittura più fiduciosi rispetto a quegli autori, che in maniera del tutto arbitraria vengono collocati nel Medioevo (Averroè e Ockham) e in un Rinascimento premoderno (Cusano4).

L'emancipazione dal testo sacro non è da intendersi affatto come allontanamento a Dio, ma come sua possibile conquista. Conquista che avviene dapprima avvalendosi dell'ausilio dei classici, in particolare di Aristotele; in un secondo momento prendendone le distanze, com'è noto dai casi illustri di Galilei, Bacone, Cartesio, Hobbes. L'emancipazione graduale avviene qui nei confronti delle tradizioni aristoteliche, averroiste, platoniche, come esigenza di andare oltre a loro e di attingere alla natura stessa5. Ulteriore sviluppo di quella ragione che si era proposta di procedere etsi Deus non daretur. È questo il segnavia decisivo che direziona quel processo che riconosciamo come Modernità. La pretesa e la fiducia che il procedere della ragione conduca a comprendere e confermare ulteriormente il contenuto della rivelazione. La innovativa tematizzazione di Averroè pone nei termini di fede/ragione un luogo che sarà classico nella modernità, quella del rapporto tra il pensato ed il pensare, tra dato e processo, tra evidenza e metodo. Anche la rivelazione infatti solo ingenuamente è da ritenersi qualcosa di già dato, un fatto, perché anch'essa necessita di un'appropriazione, un processo che ne determina il contenuto stesso. E sarà chiaro che se il volume delle conoscenze acquisite dalla ragione è tale da mettere in dubbio quanto affermato dalle Sacre Scritture, non si dovrà sentenziare come eretico lo sforzo della ragione, ma riconsiderare quanto finora si era pensato del Testo Sacro. Questa consapevolezza è solo in nuce contenuta nella considerazione del rapporto tra fede e ragione e dovrà passare attraverso il travaglio di innumerevoli errori prima di giungere ad una chiara tematizzazione dapprima nell'idealismo e successivamente nell'ermeneutica – gli errori positivistici che si ripresentano dal '500 al '900 in forme diverse, tra cui quella illuministica.

Al processo di secolarizzazione, che culminerà nella constatazione che «Dio è morto», si affianca la svalorizzazione di qualsiasi altro assoluto, la sempre maggiore parcellizzazione del pensiero, che, una volta ritiratesi le acque della piena nichilistica, si ritroverà impotente, debole, moribondo, inabissato nella palude dai diversi nomi: soggettivismo, relativismo, postmodernismo. Anche sotto questo riguardo i periodi indicati come Umanesimo e Rinascimento non possono costituire una cesura teoretica che scandisca l'uscita dai tempi bui del Medioevo. Perché, come abbia detto, il mutato atteggiamento va retrodatato; perché tra il '500 e il '600 vi è una continuità di dibattito e una simiglianza di orientamenti intorno alla condizione umana che non giustificano una presunta filosofa del Rinascimento e una filosofia successiva. Da questo punto di vista di questi secoli si dovrebbe indicare quella continuità e quel discorso che conducono al soggettivismo talora titanico talora disperato del '900. Se, come usualmente si ricorda, Pico esalta la dignità dell'uomo, Ficino ci rammenta che

 

«il genere umano sia per l'inquietudine dello spirito, sia per la debolezza fisica, sia per l'indigenza assoluta in cui si trova, vive sulla terra una vita più dura di quella di ogni altro essere vivente […] può trovarsi in condizione di beatitudine solamente dopo la morte del corpo.»6

 

Nondimeno Montaigne chiama l'uomo «creatura miserabile e infelice», condividendo quella stessa constatazione base del pensiero di Pascal. Il punto di rottura intorno al quale si catalizzeranno man mano le riflessioni sulla condizione umana è proprio il concetto di trascendentale: correttamente è stato riconosciuto in Descartes un momento imprescindibile dell'Età moderna, che si innesta però in un processo che dobbiamo far risalire al '200 e che ha avuto il suo prosieguo fino ad oggi. L'articolarsi del pensiero inizierà a differenziarsi in maniera considerevole a partire dal '600 quando, con la riflessione sul trascendentale inaugurata da Descartes, affianco al realismo tradizionale comparirà l'idealismo, del quale, tra le sue varie declinazioni, avrà la meglio quella nichilistica, che caratterizza il nostro presente.

 

Tratto da Trilogia sul fondamento

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1 Si ritiene altresì che lo sviluppo della scienza moderna sia dovuto alla scoperta del metodo scientifico e, in generale, all'abbandono dell'oscurantismo religioso proprio del Medioevo. A scacciare le tenebre di quel periodo ci avrebbero pensato quei movimenti conosciuti con i nomi di Umanesimo e Rinascimento.

2 E. Cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, trad. it. di F. Federici, La Nuova Italia, Firenze 1967 (1935).

3 Tra i molteplici casi possiamo qui ricordare Lorenzo Valla, di cui Cassirer ricorda che «non ha mai combattuto direttamente il dogma […] tuttavia, ovunque nei suoi scritti, si sente la potenza del nuovo spirito critico moderno». Per Valla «la ragione è il “migliore autore”, che non può essere smentito da nessuna altra testimonianza» (Ivi, p. 127). Ma, al di là dei singoli casi, per una panoramica dell'acceso dibattito di questi secoli rinvio ancora al già citato testo di Landucci, La doppia verità.

4 La tesi della filosofia di Cusano dai caratteri moderni è stata sostenuta da Raymond Klibansky in un saggio su Copernico e Cusano (trad. it. di P. Rossi in Antologia della critica filosofica, Laterza, Bari 1964), riferendosi all'affermazione dei limiti della conoscenza razionale in contrapposizione al pensiero scolastico di possedere la verità. Di certo questa pretesa, semmai sia stata avanzata da filosofi di qualche epoca, non è propria delle filosofie trecentesche di Duns Scoto e Ockham, che condividono le problematiche di Cusano.

5 Possiamo qui ricordare le significative parole dell'Alberti citate da Garin: «o che bravo filosofo sei, tu che conosci il corso degli astri ed ignori i fatti umani. Io non racconterò le opinioni di un filosofo – perché tutta la vostra scienza, o filosofi, si limita a sottigliezze e cavilli verbali – ma quello che ho sentito dire da un pittore. Costui, nell'osservare la forma sei corpi, ha visto più cose che voi filosofi messi tutti insieme nel misurare ed esplorare il cielo» (E. Garin, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 2005 (1954).

6 La natura non è di certo intesa come la nuova meta dell'uomo (Ficino parla del corpo ancora come di un «oscuro carcere») e il riscatto è dato dalla parte divina che è nell'uomo, non certo dalla parte terrena. Possiamo qui pure ricordare che l'immortalità dell'anima viene ritenuta dimostrabile da Ficino e indimostrabile da Pomponazzi, entrambi annoverati tra i neoplatonici.