L'articolo 7 della Costituzione:

il voltafaccia di Togliatti

 

Colloquio con Vittorio Foa 

 

 

di Sandro Magister

 

(Da l'Espresso Documenti del 20 marzo 1997)

 

NEI GIORNI RADIOSI DELLA Costituente su tutto fecero pace i comunisti, i cattolici e i laici. Ma come toccarono la Chiesa, fu guerra. «Quello sull'articolo 7 fu l'unico, vero conflitto che divise i padri della Costituzione», conferma mezzo secolo dopo Vittorio Foa, anche lui padre insigne della nostra Carta, dall'alto dei suoi 87 anni. Foa era stato otto anni in prigione, poi partigiano con Giustizia e libertà. Nella Costituente entrò con il Partito d'azione. Poi fu socialista, di quelli anti Pietro Nenni. Poi socialista del Psiup, contro il centrosinistra. Poi fondatore del Pdup-Manifesto, contro il compromesso storico. Quasi sempre dalla parte di chi perde. Solo nella Costituente entrò da vincitore, con i partiti antifascisti uniti. Fino a quel drammatico 25 marzo della divisione sull'articolo 5 poi divenuto 7. Foa votò contro. E stravinsero gli altri, i democristiani, con i comunisti di Palmiro Togliatti passati all'improvviso dalla loro parte.
Ma, da bravo nipote di rabbino ebreo, Foa è come Salomone. Giudica le cose con sapienza e distanza. «Certo quello fu un giorno cupo», ricorda. «Non era l'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione che ci pesava di più. Sapevamo già che l'articolo 7 sarebbe comunque passato, anche senza l'appoggio dei comunisti, sia pure per pochi voti di scarto. Era la svolta del Pci che ci umiliava».

 

Fu quella dei comunisti davvero una "resa a discrezione", una "capitolazione"? Così la definì Piero Calamandrei, costituzionalista principe del suo partito.

«Togliatti la vedeva in modo diverso. Ma tra noi laici c'era sgomento. Non solo la Dc aveva vinto, ma il fronte d'opposizione era stato spaccato, per la prima volta nella Costituente. Più che battuti dal voto, ci vedevamo sconfitti nei nostri stessi principii fondanti e unificanti, di laicità». 

 

Vi aspettavate il voltafaccia del Pci? 

«Sì, un qualche timore era nell'aria. Ma fino all'ultimo non volevamo crederci. Nemmeno i socialisti se l'aspettavano. Nonostante il patto d'unità d'azione col Pci, non furono preavvertiti. Prima che Togliatti facesse il discorso della svolta, tutti gli oratori comunisti s'erano pronunciati per il no». 

 

E i laici liberali? Gente di vecchio stampo come Vittorio Emanuele Orlando, Meuccio Ruini, Carlo Sforza? Quasi tutti votarono con la Dc. Solo Benedetto Croce si pronunciò contro "il giogo pretesco".

«Al momento del voto anche Croce si diede malato. La corrente laica si scoprì molto più fragile di quanto si pensasse. Eravamo convinti che il Risorgimento e Porta Pia avessero assicurato l'autonomia dello Stato italiano dalla Santa Sede. E che il Concordato del 1929 tra Stato e Chiesa fosse semplicemente un prodotto della dittatura fascista: da superare per tornare sulla strada maestra della laicità. A 50 anni di distanza, devo ammettere che sbagliammo a leggere così il 1929». 

 

Invece come andava letto? 

«Nel 1929 io avevo 19 anni, il mio ambiente era la Torino liberale. Ricordo bene le mie sensazioni di allora: erano due e tra loro opposte. Da un lato mi sembrava che col Concordato Mussolini svendesse l'Italia al papa: l'Italia che a Porta Pia aveva conquistato Roma! Dall'altro lato sentivo che per il fascismo quella non era una sconfitta, ma un grande successo. Ecco, nel 1947 noi laici eravamo ancora fermi lì: a questi due giudizi tra loro contraddittori». 

 

Mentre oggi?

«Oggi è più chiaro che il 1929 è stato un'altra cosa: una tappa decisiva della riconquista dell'Italia da parte del cattolicesimo politico. Quarant'anni di trionfo democristiano stanno lì a provarlo. E non è mica detto che questa pagina sia chiusa». 

 

Togliatti ebbe più fiuto di voi?

«Allora il suo voltafaccia lo giudicammo da un altro punto di vista. Lelio Basso, che era con me nel Partito d'azione, ci riferì che Togliatti gli aveva confidato d'essersi deciso a votare l'articolo 7 in cambio dell'assicurazione di un posto del Pci nel governo per altri vent'anni».

 

Quando invece fu buttato fuori neanche due mesi dopo.

«Appunto. Togliatti può anche aver detto quella cosa. Ma non era la sua motivazione vera. Noi però ci cascammo. I nostri giudizi erano rozzi. Riducevamo tutto a tatticismo. Era un po' un nostro difetto generale: tendevamo a sminuire le ragioni di chi era in disaccordo con noi». 

 

Mentre quali erano le ragioni vere di Togliatti?

«Mi sfugge tuttora il processo d'elaborazione che portò il capo del Pci a mutare la sua decisione di voto. Ma le motivazioni mi paiono oggi più chiare. Certo tutto avvenne piuttosto rapidamente. Ancora il 20 marzo, appena cinque giorni prima della votazione finale, Giancarlo Pajetta intervenne in aula per confermare e motivare il no dei comunisti». 

 

Però proprio quello stesso giorno monsignor Domenico Tardini, braccio destro politico del papa, confidava a un emissario degli Usa d'esser certo che i comunisti avrebbero votato sì. 

«In Vaticano ne sapevano più e prima di noi. Non escludo che Togliatti avesse percorso due vie di elaborazione parallele. Una dentro il partito, attestata fino all'ultimo sul no. Un'altra con quei suoi comunisti cattolici tipo Franco Rodano, che a loro volta avevano canali in Vaticano. Questo gli consentì d'intuire l'essenziale e di decidere di conseguenza. C'è una frase, nel suo discorso della sera del 25 marzo, quando annunciò il voto favorevole del Pci all'articolo 7, che ritengo una frase di verità». 

 

Perché di verità?

«Perché svela come Togliatti vedeva davvero le cose. Il vero scontro, disse, non è tra democristiani e sinistra, bensì tra la Costituente e "l'altra parte contraente e firmataria dei patti del Laterano". Come dire: qui continua quello stesso confronto tra Stato e Chiesa che è alla base del Concordato. Togliatti coglieva nel segno. Lui sapeva della pressione fortissima che il Vaticano stava esercitando perché i patti del 1929 fossero inclusi così com'erano, compresi i loro tratti illiberali, nella nuova Costituzione italiana».

Si sapeva che il Vaticano esercitava pressione in primo luogo sulla Dc e sul capo del governo De Gasperi?

«Oggi lo sappiamo più di allora. C'è una lettera del 15 marzo 1947 scritta a De Gasperi dal presidente dell'Azione cattolica, Vittorino Veronese, che è, tragica nella sua brutalità. Come scrivesse sotto dettatura, Veronese intimava al capo del governo di dar corso al "desiderio preciso della stessa autorità ecclesiastica", e arrivava a minacciare che "dipenderà da tale votazione la preferenza dei cattolici stessi nelle future elezioni politiche". In altre parole , il Vaticano avrebbe annientato la Dc, se solo questa avesse ceduto sull'articolo 7 nella formulazione a esso gradita. De Gasperi intimamente non sopportava queste pressioni. E lo fece intuire nel suo discorso del 25 marzo: quando chiese che si votasse l'articolo 7 non per obbedire alle pretese della Chiesa, ma, al contrario, per portare la gerarchia ecclesiastica a promettere fedeltà alla nuova Repubblica, in forza del giuramento imposto a ogni nuovo vescovo proprio dal Concordato». 

 

Tra De Gasperi e Giuseppe Dossetti lei chi preferiva?

«De Gasperi. Anche Dossetti intervenne a sostegno dell'articolo 7, con un discorso lunghissimo ed estremamente tecnico. Ma anche con un'impronta confessionale e clericale molto più marcata di quella dei vecchi popolari. Stando alle sue argomentazioni, Dossetti era capace di giustificare tutte le discriminazioni religiose a danno dei non cattolici».

 

Tornando a Togliatti, il suo sì all'articolo 7 era dunque un messaggio che egli voleva mandare alla Chiesa, prima che alla Dc?

«Penso che Togliatti volesse far capire alla Chiesa che in Italia i comunisti erano sinceramente per la pace religiosa. Non per ottenere di stare al governo, come un po' tutti pensavamo allora. Ma per disarmare l'aggressività della Chiesa di papa Eugenio Pacelli nei confronti del comunismo italiano. In quei mesi di divisione dell'Europa in blocchi, Togliatti voleva mostrare alla Chiesa che i comunisti italiani non erano antireligiosi come quelli dell'Est». 

 

Ma come riuscì questa operazione? 

«Non riuscì. La previsione di Togliatti si rivelò errata. Invece di allentare la sua ostilità anticomunista, il Vaticano la scatenò. Raddoppiò le pressioni sulla politica italiana, mirate a spaccare l'unità delle classi popolari. Tra il '48 e il '53 l'anticomunismo della Chiesa toccò punte esasperate, quasi da oscuramento della ragione, con l'Azione cattolica e i gesuiti in fila d'assalto».

 

All'epoca circolava un'altra spiegazione della svolta del Pci: Togliatti votava l'articolo 7 e in cambio De Gasperi ritirava la minaccia di un referendum sulla Costituzione, che avrebbe rimesso in forse la stessa scelta repubblicana.

«Questa storia della pattuizione la misero in giro i democristiani. Ma io non ci ho mai creduto. La Dc non aveva né la forza, né l'interesse di riaprire la questione istituzionale tra repubblica e monarchia. Nel '47 l'opzione monarchica era uscita di scena per sempre. Sono convinto che già nel referendum del 2 giugno 1946 i milioni, molti dei quali democristiani, che votarono per la monarchia esprimevano più un'Italia moderata che non un'Italia legittimista sabauda. Sostenendo l'articolo 7, la Dc dava al suo elettorato un segnale forte di continuità e di unità ricomposta, nel grande partito della Chiesa».

 

All'indomani del voto, su "Rinascita", Franco Rodano giustificò il sì del Pci all'articolo 7 in nome dell'unità delle classi popolari, cattoliche comprese, contro «i gruppi egemonici ecclesiastici e altoborghesi».

«Bassa propaganda. Come poteva Rodano parlare di "unità delle classi popolari" quando anche lui aveva fatto di tutto per spaccare la sinistra e gli stessi comunisti? E come poteva liquidare come "radicali piccolo borghesi alleati dei clericali" noi azionisti e socialisti che ci eravamo opposti all'articolo 7? Togliatti aveva in testa ben altra cosa che questi teoremi di bassa lega. Ma anche la propaganda aveva il suo peso. A forza di dirlo ci convincemmo tutti che con l'articolo 7 il Concordato era stato elevato al rango della Costituzione. Ma non era così. Le sue clausole possono essere tutte modificate con procedure di legge ordinaria. È così che sta scritto. Ma ancor oggi non ci si fa molto caso. Si è sempre drammatizzata la questione più di quanto meriti».

 

È corretto concludere che con l'articolo 7 Togliatti inaugurò quella politica di alleanza tra le due Chiese che sarebbe divenuta una costante della politica comunista?

«Penso di sì. Il 25 marzo 1947 Togliatti non ne fece mistero: era come se lui fosse l'Italia e il suo interlocutore il papa. Poi negli anni '70 venne il compromesso storico. Anch'esso progetto d'alleanza tra due Chiese, due visioni etiche».

 

E oggi? Ci risiamo? Postcomunisti, più postdemocristiani, più quel discepolo di Dossetti che è Romano Prodi...

«No. Dal 1992 è cambiato tutto. Il cattolicesimo politico non è più quello; e non solo perché è sparita la Dc. Anche la Chiesa non è più la stessa, nonostante il papa persista nel vecchio pregiudizio, speculare a quello laico, secondo cui per salvare la religione bisogna contrastare la modernità (e modernità vuol dire donna, vero problema irrisolto di questo pontificato). I comunisti, poi, non solo sono cambiati, ma hanno voluto seriamente rinnovarsi, fin troppo direi, al punto di buttare a mare con l'acqua anche il bambino. Quanto a Prodi, non vorrei che si scambiasse per rinascita del dossettismo quello che è solo un certo clima amicale emiliano. Sarò ottimista o ingenuo, chissà. Ma sento che qualcosa di nuovo e di buono ci verrà presto da parte dei cattolici. Quelli che oggi sono i più silenziosi». 


Foa (al centro) fra Natalia Ginzburg e Norberto Bobbio
Foa (al centro) fra Natalia Ginzburg e Norberto Bobbio