Vittorio Alfieri


L'ECCELLENTE EDUCATORE, L'AUTENTICO INTELLETTUALE



Nel più delle cose, il crederle fortemente, le fa essere; come il debolmente crederle, cessare le fa. Ma, di nessuna si vede più pronto e sicuro questo effetto, che della opinione avuta da ciascuno individuo di se stesso. Non dico io per ciò, che ad essere un uomo grande basti il credersi tale; anzi, chi lo è, tale per lo più non si reputa: ma dico bensì, che a volerlo divenire, bisogna essere in se stesso convinto di averne tutta la capacità; e aggiungervi un intenso, e incessante volere; e il tutto corredare poi di quella saggia diffidenza di se, che non è né viltà, né coscienza della propria debolezza, ma un profondo sentimento della difficoltà e sublimità della perfezione.

Se dunque il letterato, uomo per se privatissimo e oscuro, senza nessun’altra potenza né autorità, che quella del proprio ingegno; se il letterato osa pur concepire il sublime disegno di voler da se solo persuadere gli uomini, rettificare i loro pensieri, illuminarli, difenderli, dilettarli, convincerli, e far forza ai più; chiara cosa è, ch’egli dovrà aggiungere al molto ingegno naturale, alla dottrina necessaria e bastante al soggetto, al caldo e puro parlare, una altissima stima di se stesso: e non solamente la stima del proprio ingegno, ma della illibatezza dell’animo, del severo costume, della virtuosa e libera sua vita, non contaminata (per quanto si può) da nessuna macchia di timore, di dipendenza, né di viltà. Che se egli non si reputa e conosce per tale, come ardirà lo scrittore insegnar la virtù, che non ha praticata? altro non sarebbe, che uno svergognare e condannare se stesso. Ma, se egli tal non si reputa, come potrà egli tale mostrarsi? Lo scrittore crede, e pretende, di parlare a tutti. Uno scrittore onorato non dee commettere alla carta veruna cosa, che egli in savia e ben costituita repubblica non ardirebbe pronunziare di bocca ad un popolo intero. Non dee dunque mai porre in iscritto cosa, che non creda esser vera e retta; e che, come tale, non segua primo egli stesso, per quanto è possibile.

Una moderna opinione, sfacciata ad un tempo e timida e vile, asserisce che il lettore dee giudicare il libro e non l’uomo. Io dico, e credo, e facile mi sarebbe il provare; che il libro è, e deve essere la quintessenza del suo scrittore; e che, se non è tale, egli sarà cattivo, debole, volgare, di poca vita, e di effetto nessuno. Ed eccone rapidamente le prove.

A voler fare vivamente sentire altrui, bisogna che vivissimamente senta lo scrittore egli primo: non si può mai fortemente esprimere ciò che debolmente si sente: un pensiero espresso debolmente perché non è fortemente sentito da chi il concepisce, non potrà mai fare neppure una mediocre impressione in colui che lo legge: da queste tre verità, parmi che ne risulti una quarta; che se lo scrittore non è intimamente persuaso di ciò ch’egli dice, non persuaderà, né commoverà mai nessuno; e quindi sarà per lo meno inutile il suo libro.

E sempre io parlo di calda, di forte, e di vivissima impressione, come della più importante parte d’ogni buon libro; perché gli uomini tutti per lo più, e maggiormente i più schiavi (come siam noi) peccano tutti nel poco sentire. Credo, che ciò provenga (almeno in noi) dal troppo parlare, dal poco pensare, e dal nulla operare; esistenza affatto passiva, che ci è singolarmente toccata in sorte a questi tempi, come ho già più sopra osservato; sorte, di cui dobbiamo pure esser degni, poiché con tanta disinvoltura la sopportiamo: ed i più la sopportano, senza neppure avvedersene.



Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, II, 7