L'IMMORTALITÀ


di Giovanni Gentile



Qual è il significato dell'immortalità? L'anima si pone come Io; e come Io, non ha bisogno di dottrine psicologiche e metafisiche per essere affermata, poiché ogni dottrina, anzi ogni respiro della ostra vita spirituale, presuppone tale affermazione. [...]

L'Io non è solo posizione dell'altro, e quindi opposizione di sé a quest'altro, e moltiplicazione. L'Io è anche, e prima di tutto, unità, per cui tutti i coesistenti dello spazio si abbracciano d'un solo sguardo nel soggetto, e tutti i succesivi del tempo sono i compresenti in un presente che nega il tempo. L'io domina lo spazio e il tempo. [...]

 

L'immortalità dell'anima non ha originariamente e sostanzialmente nessun altro significato.

Questa personalità, per cui entriamo nel mondo del molteplice e degli individui naturali è radicata in una personalità superiore, e soltanto in essa è reale. La quale contiene la prima e tutte le altre empiriche personalità e quanto altro si dispiega nello spazio e nel tempo. [...]

 

La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pensare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente irretita la mitica interpretazione filosofica di quest'immanente affermazione dello spirito, l'immortalità dell'individuo empirico; onde nel regno dell'immortalità si viene a proiettare la molteplicità e, per conseguenza, la spazialità e la temporalità della natura. [...]

Il cuore - perché con tal nome sogliamo esprimere gli interessi più intimi e concreti dell'individualità spirituale, - ci chiede invero l'immortalità dell'empirico, oltre che del trascendentale. Ci chiede l'immortalità del nostro essere individuale, così com'esso si concreta in un sistema di relazioni particolari appoggiandosi alla concretezza positiva degli individui naturali. L'immortalità mia è l'immortalità di tutto ciò che ha per me valore assoluto: quindi mia, p. es., dei miei figli e dei miei genitori, che formano insieme con me un complesso molteplice di individui. Il che, in generale, vuol dire, che l'immortalità mia si concreta nella immortalità del molteplice.
Ma conviene considerare, che io, in quanto attribuisco, o riconosco, al molteplice il valore, per cui sento il bisogno di affermarne l'immortalità, non sono uno degli elementi del molteplice, ma l'Uno, l'attività, in se stessa immoltiplicabile, e perciò principio della molteplicità. [...]

Niente si ricorda e tutto si ricorda; niente è immortale, se la immortalità si vuol riconoscere dal segno dell'empirico ricordo; e tutto è immortale se il ricordo, onde il reale si perpetua e vince il tempo, s'intende come soltando si può intendere a rigore. La memoria come conservazione del passato mummificato e sottratto alla mente lungo la serie stessa degli elementi del tempo, è un mito.
Niente si ricorda in questo senso, niente sta  o si ripete dopo essere stato, e tutta la realtà inesorabilmente investe, per definizione, l'innumerabilis annorum series et fuga temporum, di cui parla il poeta. Ciò che si sottrae alla dea Libitina, e sta, monumento più duraturo del bronzo, è il carme nella fantasia del poeta, nell'atto della creazione, col suo eterno valore, onde risorgerà sempre nell'umana fantasia, non perché sia sempre quella poesia, anzi perché è una poesia sempre nuova, reale nell'atto del suo ravvivarsi, in un modo che sarà sempre nuovo, perché sempre unico. La poesia d'Orazio, quale noi possiamo collocarla in un punto della serie degli anni, è travolta dalla fuga del tempo; e Orazio, come uomo che nacque e morì, è ben morto; e il suo monumento sorge in noi, in un Noi che, in quanto noi, soggetto e atto immanente, non è diverso da quello di Orazio. Giacché Orazio, oltre che oggetto tra gli altri molteplici compresenti nella storia che noi sappiamo, quando lo leggiamo, ci si presenta come non altra cosa da noi, ma nostro fratello e padre, anzi il nostro Noi stesso, nella sua interiore trasparenza, nell'identità di sé con sé. Onde ciò che è reale nel ricordo, non viene a noi dal passato, ma si crea nell'eternità del nostro presente, dietro al quale non c'è passato, come innanzi ad esso non c'è futuro. [...]

Qual è la parola che suoni un istante nel segreto dell'anima nostra, o quale il granello di sabbia che giaccia sepolto nel profondo dell'Oceano, o quale l'astro immaginabile al di là d'ogni nostra attuale o possibile osservazione celeste, che non occorra e non s'incentri in quell'Uno, in rapporto al quale tutto è pensabile? [...]

Quel che muore di noi e dei nostri cari è la materialità che mai non è stata. Giacché la materialità che è veramente, non è quella semplice astrazione dell'atto spiritual, che è la materialità apparente, a cui d'ordinario guardiamo, inconsapevoli dello spirito che l'avviva e la fa essere. Quell'astrazione non è immortale, perché essa non esiste. La materialità che è molteplicità dello spirito, è nello spirito; e in esso è e vale quel tanto che realizza dello spirito. La sua immortalità consiste nella sua mortalità. [...]

 

L'individuo, dunque, è mortale o immortale? L'individuo aristotelico, che è pur quello del pensare comune, è mortale; e cioè la sua immortalità è la sua mortalità, perché la sua realtà è nello spirito immortale. Ma immortale è l'indidividuo come atto spirituale, che è l'individuo individuandosi. Nell'atto, come puro atto, dello spirito, fuori del quale nulla c'è che non sia astrazione, è dunque il regno dell'immortalità.

[G. GENTILE, Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), Le lettere, pp. 136-147]