GIOVANNI GENTILE

(1875-1944)


Sommario di pedagogia

come scienza filosofica

(1912)


Prefazione


Non avrei mai scritto per le scuole un libro scolastico, e tanto meno un libro di pedagogia. Scrittori valentissimi si sono già provati a sottrarre la letteratura scolastica al limbo di quei libri che mai non fur vivi né per l'arte né per la scienza, e che ognuno di noi, se non li abbellisca nell'immaginazione, pronta a ravvivare dei più poetici colori anche le cose più tristi degli anni lontani, non può ricordare senza disgusto e dispetto.


E non vi sono riusciti; e quella letteratura rimane tutta, e rimarrà sempre, la parte più sciagurata di quella insipida produzione dell'ingegno umano, che è la letteratura commerciale: la parte più pretenziosa, più falsa, più esosa, che potrebbe denominarsi: «il Regno della pedanteria»! Dove non basta potare la poesia ad usum Delphini, né far della scienza, ossia della più alta, della più santa opera dell'universo, una pagnotta che si spezzi e riduca in pillole di facile deglutizione, ancorché di dubbia efficacia; ma s'ha da manomettere il buon senso, offendere la dignità umana e annoiare a morte, dimostrando che il sole a mezzogiorno è sull'orizzonte e ogni mano ha cinque dita, quando ne ha cinque.


Un manuale di pedagogia! Come dire la quintessenza d'ogni pedanteria e l'arte stessa di tutte le male arti, con cui i maestri di scuola di tutti i tempi si son messi attorno alla povera umanità per insegnarle a forza quel che non s'impara e non s'imparerà mai, perché non esiste: una letteratura senza vita, una grammatica senza vivo discorso, e discorsi che nessuno ha mai fatti o farebbe, e regole senza vigore perché astratte dal seno della realtà e propinate nella loro cruda astrattezza: sentimenti o pensieri, che son luoghi comuni e non palpiti spirituali; una storia a caselle, dove giuocano marionette battezzate con grandi nomi; una scienza sottratta al vivo della ricerca, all'animo che ne visse una volta, e non l'avrebbe forse ripetuta mai più; una filosofia che non si capisce e una religione in cui non si crede, ridotta a un arzigolo di formule; e parole parole parole, invece della realtà, della vita e dell'anima, di cui ogni scolaretto è sostanziato.


Dar mano a questi tormentatori degli anni che dovrebbero essere i più lieti dell'uomo, non è lecito per certo a chi abbia anche una lieve coscienza del gran male, che il pedagogismo ha sempre arrecato alle scuole e a tutto, in generale, lo svolgimento dello spirito; ma non è neppur cosa lusingare il più modesto amor proprio.


Questo libro, dunque, sia detto fin da principio, non è scritto sulla falsariga dei programmi, né in servigio dei pedanti: questo libro non è un «libro scolastico». Esso è nato per l'appunto da una ripugnanza antica contro la pedagogia qual è comunemente intesa, e qual è nei programmi ufficiali; quella pedagogia che, in combutta con la rettorica, ha creati i libri scolastici e le scuole dove questi libri si studiano, o, piuttosto, non si studiano; ed ispirato a un saldo convincimento, maturato in quindici anni di pratica della scuola e di meditazione: che la scuola dev'essere, non diminuzione e prostrazione dello spirito, non meccanizzazione artificiale delle categorie della vita, ma la più chiara celebrazione di quello, e il rinnovamento continuo di questa in tutta la sua pienezza e freschezza; e che perciò vi si deve parlare quello stesso linguaggio che l'uomo parla in famiglia e nella società, o nei libri, ove concentra e potenzia le forze dell'animo suo; e vi si deve respirare la stessa aria del mondo di là delle pareti della classe, quell'aria frizzante e vivificante che è la gioia e la serietà della vita nel suo spontaneo rigoglio.


E però questo libro vorrebbe portar nella scuola un senso del problema educativo come missione umana, e come coscienza speculativa di questa missione: e portarvelo senza menomamente attutirlo per celarne le difficoltà e cullare i giovani nella fallace illusione di potersi recare, chiuso in poche regole, il segreto di quell'arte divina, che è la vera educazione, generazione perpetua che lo spirito fa di se stesso. E questo senso del destare, non con una esposizione di astratte verità già altra volta trovate e ora messe in assetto e fatte sfilare come articoli di catechismo, bensì con la rinnovata ricerca di un concetto dell'uomo e di un orientamento necessario a chi del proprio spirito vuol far guida e modello all'uomo che si vien formando.


Il mio vorrebbe perciò essere un libro adatto agli alunni delle scuole normali e di tutte le scuole, dove si preparano i futuri insegnanti; non perché adatto a loro soltanto, anzi perché adatto a tutti gli uomini colti, che cercano, come io cerco da tempo, come han cercato mille e mille prima di me, una coscienza e una fede, per sé e per gli altri, insieme coi quali ognuno di noi, molto o poco, concorre, educando, a una comune opera spirituale. Giacché l'educazione, se Dio vuole, non è sola funzione scolastica: e tutta la società, in cui tutta si svolge la nostra vita, si attua in virtù di reciproche azioni spirituali, ciascuna delle quali implica tutti i problemi educativi: e il problema del fine, al quale ogni educazione cospira, è pure la meta costante d'ogni umana operosità. Un libro, insomma, non propriamente «scolastico», e che perciò appunto ardisce battere umilmente alla porta della scuola.


Anche della scuola normale, quantunque all'età ancor tenera della scolaresca che ne frequenta la prima classe, specialmente nelle scuola normali femminili, possa parere, come sottile ed astrusa, troppo superiore taluna delle materie che in questo libro sono trattate. E io, in verità, sono d'avviso che tre anni di scuole complementari, dopo il cosiddetto esame di maturità (che è proprio il lucus a non lucendo!) siano affatto insufficienti a maturare quelle attitudini mentali e morali, che par ragionevole supporre in chi s'avvii a provvedersi della cultura occorrente a funzione così delicate e preziosa come quella magistrale. Ma questo non è errore da correggere con un libro, bensì con una legge, che riformi l'ordinamento della scuola normale, cominciando con l'istituire una scuola preparatoria speciale, che sia preparatoria davvero; o, per lo meno, speciali e seri esami d'ammissione. Credere di porvi intanto riparo con lasciare di nome l'insegnamento pedagogico, e abolirlo di fatto, è un'ingenuità puerile, per non dir peggio. Un'ingenuità che non riguarda questo solo insegnamento: poiché i programmi di lettere italiane e di storia e di scienze non presentano, io credo, difficoltà minori, ancorché di solito dissimulate dall'andazzo della facile contentatura. Richiedere nei programmi, che nella Iª normale si tratti delle «facoltà umane» e delle «leggi generali del loro svolgimento», e ammonire nelle istruzioni premesse ai programmi che «dall'insegnamento della pedagogia bisogna bandire le formolo della filosofia teoretica» può servir solo a documentare la competenza e singolar saviezza della pedagogia ufficiale, cui si deve la presente scuola normale, tutta vuoto enciclopedismo e boriosa pretenziosità.


E io vorrei anche pregare i professori, cui è affidato questo importante insegnamento della pedagogia, di riflettere, che non è già tutto quello che intendiamo facilmente e perfettamente il cibo veramente sostanzioso del nostro spirito. Le banalità non fermano neppure l'attenzione, non destano interesse, non suscitano nessun lavorio interno. Tanta fede e tanta volontà di bene mille e mille generazioni hanno attinta fin da' più teneri anni da formole pregnanti ed astruse come il Credo e il Pater, non perché quelle formole rendessero alle menti infantili i significati reconditi de' teologi, ma perché eran loro ripetute dal labbro materno con accento d'intensa vita di fede e bontà.


Tutto ciò che abbiamo appreso da piccini, lo abbiamo appreso se possiamo anche ora, a tanto intervallo, tornarvi su col pensiero, e riapprenderlo con forze di tanto cresciute che ci permettono di scoprirvi dentro verità profonde una volta non sospettate. La scuola deve contentarsi di stimolare, additare una luce lontana, una meta alta, non pretendere pappagallesche ripetizioni e virtuosità disquisitive di dottori in erba. La via del sapere sincero è lunga; ed è molto se nell'adolescenza, quando i maestri hanno cure speciali pel nostro spirito, noi c'invogliamo di percorrerla alacremente. Questa voglia non si fa nascere dando un sapere, ma dando il bisogno del sapere, e mettendo nell'anima, con le difficoltà dei problemi che sorgono dall'animo di essa, il pungolo della riflessione ulteriore. Il buon libro è viatico per la vita futura. I maestri ce lo leggono in modo da farcene sentire il gusto; e noi ce lo portiamo con noi dopo la scuola, fida compagnia, sempre meglio capita e sempre più amata. Il libri “scolastici” invece, come limoni già spremuti, sono buttati via subito dopo gli esami.


G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1912), Sansoni, Firenze 1982, pp. VII-XII

Mark Horst, “By the signs of this world no. 10”